STEVEN WILSON – To the Bone

by Giuseppe Piscopo

To the Bone” è uno di quei dischi capaci di far parlare (molto) di sé ancora prima dell’uscita: mesi e mesi di dichiarazioni hanno seminato il panico tra i fan di Steven Wilson, rimasti spiazzati da quello che si annunciava come praticamente un disco pop, allegro, ben distante dalla malinconia a cui l’artista britannico ci ha abituati durante la sua carriera solista ed anche prima di essa. Alla soglia dei cinquant’anni, il buon Steven decide di guardare al suo passato e riscoprire quel pop colto anni ’80 che risponde al nome di Peter Gabriel, Tears for Fears, Kate Bush ed altri. La formazione è nuovamente rimaneggiata, con l’entrata del chitarrista David Kollar per un paio di brani (su tutti gli altri le parti di chitarra sono dello stesso Wilson) e dei due batteristi Craig Blundell, già presente negli ultimi tour, e Jeremy Stacey. Oltre agli artisti appena citati, vediamo anche una miriade di collaborazioni che spaziano dalla voce alle percussioni, fino agli archi ed altro ancora.

Per uno come il sottoscritto, che ha letteralmente consumato i suoi lavori solisti fino a questo punto, il primo ascolto di quest’album è stato piuttosto ostico e accidentato: nonostante, come vedremo, il risultato finale sia più che positivo, il cambio di direzione su citato è abbastanza evidente già dalla title track in apertura e dalla successiva “Nowhere Now“. Il mood è decisamente più spensierato rispetto ai lavori più recenti, con melodie messe estremamente in risalto anche grazie ad una struttura meno intricata, sia a livello di composizione che di esecuzione. Entrambe si lasciano apprezzare, specialmente dopo qualche ascolto e dopo aver preso le misure con questa nuova dimensione artistica. A partire da “Pariah“, primo dei tre duetti con l’israeliana Ninet Tayeb, si inizia a riconoscere il Wilson dei lavori passati: questo brano presenta infatti quella grande carica emotiva tanto osannata dal pubblico. Altri richiami, segno che quanto detto prima dell’uscita è vero fino ad un certo punto, sono riscontrabili nella successiva e socialmente impegnata “Refuge“, così come “Song of I” (in collaborazione con Sophie Hunger) e “Detonation“, con il suo eccellente crescendo fino all’esplosione finale, richiamano “Grace for Drowning” in termini di atmosfera più cupa e presa di distanza dalla tipica forma-canzone che caratterizza il resto dell’opera.

Viene da chiedersi, allora, dove siano le differenze eclatanti intuibili dai vari comunicati: la realtà è che, a conti fatti e dopo aver metabolizzato il disco, queste differenze tanto eclatanti non sono. Quanto detto finora è sapientemente amalgamato con rimandi pop e, a tratti, funk tipici degli anni ’70 e ’80, i quali si ergono a protagonisti soltanto in alcuni, azzeccati momenti lungo più o meno tutta la tracklist. Certo, a questo proposito ci si imbatte esattamente a metà disco in quella che è “Permanating“, sicuramente il brano più atipico della produzione dell’artista di Hemel Hempstead. Una dichiarazione d’amore agli ABBA se così si vuole intendere, un brano che sul momento risulta piacevole ma che a mente fredda dà la sensazione di essere stato più che altro un vezzo, uno sfizio tutto sommato evitabile tenendo conto dell’economia generale del disco. Altra virata è rappresentata da “People Who Eat Darkness“, che però riprende strade già in parte battute con i cari, vecchi Porcupine Tree. Il disco si chiude infine con l’ennesimo elemento ad alto tasso emotivo, la lunga “Song of Unborn“, che conclude nel migliore dei modi ques’ora di musica.

Cosa dire, quindi, di “To the Bone”? È inutile soffermarsi sull’eccellente prova dei musicisti, che nonostante l’assenza di particolari virtuosismi si incastonano nell’insieme con un buongusto invidiabile, men che meno sulla produzione, vero e proprio fiore all’occhiello di tutta la produzione wilsoniana. La verità, probabilmente, sta nel mezzo: si tratta di un disco in cui si innova (chiaramente in relazione alla sua produzione, non in generale) senza snaturare e dimenticare il percorso compiuto finora, un cambiamento molto più subdolo rispetto a quanto suggerito dai primi pareri della critica. Forse non mi ritroverò tra cinque anni ad ascoltare ancora “To the Bone” dall’inizio alla fine, ma d’altronde dubitavo che sarebbe durato più di due-tre ascolti. Chi lo sa, magari mi riserverà altre sorprese in futuro.

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