THRESHOLD – Legends of the Shires

by Jacopo Silvestri

Tra tutti i lavori dei Threshold, quest’ultimo “Legends of the Shires” ha attratto molta attenzione e attesa su di sé. Il motivo? Dopo dieci anni di collaborazione col cantante Damian Wilson, è ritornato nella formazione Glynn Morgan, nome noto per gli affezionati, in quanto sono sue le parti vocali di “Psychedelicatessen“, datato 1994.
Una delle prime cose che si notano della produzione è la sua durata: ci si trova di fronte a un doppio album che arriva ad un’ora e 22 minuti nel totale, ed è qui che ci si chiede se ciò sia azzardato e se ci si annoierà durante l’ascolto.
Detto, fatto. Basta poco per venire smentiti: i brani risultano nello stile al quale gli inglesi ci hanno sempre abituato, senza scivoloni o uscite di strada particolari, riuscendo a non stufare visto il loro buono valore.

Ad aprire il sipario ci pensa “The Shire (Part 1)“, pezzo diviso in tre parti, le quali non si susseguono ma si trovano in tre punti differenti.
La prima, come appena detto, è l’opener, e si tratta di un pezzo con solo chitarra acustica e voce. La seconda parte, al settimo posto della tracklist (e opener del secondo disco), riprende l’andamento della precedente, per poi lasciarsi andare a sfuriate hard rock, un paio di assoli di chitarra e uno di basso. La terza e ultima (che si trova verso il finale, come dodicesima composizione nel totale), consiste in un semplice intermezzo in pianoforte con un paio di strofe cantate.
La peculiarità dei tre brani sta nel loro saggio posizionamento all’interno del disco, difatti pur essendo tre spezzoni di un unico componimento, la loro disposizione è azzeccata. Forse l’unica parte a risultare di troppo è la terza, ma non è nulla di trascendentale.
La seconda canzone del disco è “Small Dark Lines“, che propone inizialmente, a sorpresa, un riffing tipicamente Thrash Metal per poi, in poco meno di cinque minuti e mezzo, racchiudere lo stile della band. Cantato sempre sul pezzo, assoli di chitarra ma anche di tastiere e parti ritmiche mai banali, questi gli ingredienti che il quintetto del Surrey ha messo in pratica nel pezzo, come in molti altri.
La lunga “The Man Who Saw Through Time” cambia parzialmente direzione e si pone inizialmente come una ballad, per poi riassumere potenza e riuscire, grazie alla sua lunga durata, a lasciare molto spazio anche alle parti strumentali.
Star And Satellites” invece si mantiene come ballad per tutti i suoi sette minuti di durata, convincendo e toccando nel profondo. Come ci si può immaginare, nemmeno qua mancano le parti più tecniche, e qui entra in gioco l’assolo presente dopo cinque minuti e mezzo.
Passiamo ora al secondo disco, che si sposta notevolmente verso un songwriting concentrato molto più sulla melodia, proponendo per la maggior parte brani più lenti ed emotivi.
A questo punto sale in cattedra quello che è l’unico nato negativo della produzione: la prevedibilità, che comincia a “contaminare” le tracce in certe loro parti, salvandone solo certi frangenti.
Ma, nel momento del bisogno, arriva “Lost In Transition“, la quale non sarà la più caratteristica dell’album, ma offre il tocco d’innovazione necessario per non far calare ulteriormente il parere sul tutto.

Nonostante questa pecca, il risultato è comunque degno di nota e difficilmente deluderà le aspettative di chi lo attendeva, dimostrando come, nonostante la carriera quasi trentennale alle spalle, i Threshold non risultino mai deludenti.

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