MAYAN – Dhyana

by Federico Cerioni

Questa recensione avrà un copione diverso da quello che vi potreste aspettare. Non starò a scrivere parole su parole per dirvi se il disco è bello o se è brutto, quanti tecnicismi ci sono e quante rime baciate. L’unica cosa che voglio spoilerarvi è che questo lavoro merita un ascolto, un’opportunità, e cercherò di spiegarne i motivi.

Se state leggendo questa recensione immagino sappiate già vita morte e miracoli dei MaYaN, ma per dovere di cronaca è giusto ricordare che è un progetto nato dalle menti di Mark Jansen degli Epica e Jack Driessen, ex tastierista degli After Forever: il primo amante del Death Metal e il secondo della componente sinfonica, si sono uniti per mescolare queste due stili musicali senza badare troppo a canoni preimpostati o seguire determinati binari musicali. Siccome non volevano comporre un album “normale”, a inizio 2018 è stata avviata una campagna di crowdfunding tramite IndieGoGo e nel giro di pochi mesi hanno raggiunto la somma di 40mila euro, grazie alla quale hanno collaborato con l’Orchestra Filarmonica della Città di Praga (già al lavoro, in passato, con i Dimmu Borgir).  

Come abbiamo imparato quando si tratta di Mark Jansen, nulla è lasciato al caso e anche i più piccoli dettagli sono curati in maniera maniacale: dalle strumentazioni alla copertina, passando per i testi. 

Dhyana” infatti riflette su temi concettuali come la consapevolezza dei nostri pensieri, la rimozione delle tendenze egoistiche e la scoperta di chi siamo veramente; è il momento in cui la mente individuale viene assorbita dal cuore e si fonde con la mente universale. E la copertina dell’album conferma il concept: una donna circondata da nubi oscure che rappresentano i suoi pensieri più brutti e negativi, che finiscono per portarla all’autodistruzione, nonostante le cose belle che ci sono attorno, simboleggiate dall’ambiente dorato che la circonda. La donna, infatti, non riesce a coglierle, a vederle, perché i pensieri negativi hanno preso il sopravvento. E questa metafora, come più volte ha spiegato lo stesso Mark, si riflette anche nella musica stessa dell’album: la parte oscura a simboleggiare le parti più pesanti e quella dorata la sinfonia e la ballata, “Dyhana” appunto. 

Tutti questi sentimenti contrastanti sono ben espressi anche musicalmente: come dicevamo in apertura, le parti orchestrali e sinfoniche ora si alternano con quelle più heavy, ora si mescolano con esse, in un vortice di emozioni. Come anche le voci, molto diverse fra loro ma capaci di incastrarsi e alternarsi con una maestria lodevole: dal soprano Laura Macrì al canto pulito di Marcela Bovio (Stream of Passion), dalla voce rock di Henning Basse (Firewind), ai growl di George Oosthoek (Orphanage) e Mark Jansen.

Il risultato finale dà un senso di epicità e maestosità, ma senza tralasciare una melodia orecchiabile e piacevole, i cui picchi li troviamo in “The Rhythm of Freedom“, “Set Me Free” e “Rebirth of Despair“.

In conclusione, è un gran bel lavoro da parte dei MaYaN. Nonostante sinfonie e melodie abbondino, non è un album immediato, va ascoltato un paio di volte per poterlo assaporare e apprezzare appieno. Al primo ascolto forse vi sentirete spiazzati per come questi generi e queste voci si intervallano, mescolano e fondono tra loro, ma non vi deluderà. 

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