AUGUST BURNS RED – Guardians

by Luca Gazzola

Tornano gli americani August Burns Red, dopo tre anni da “Phantom Anthem”, con un nuovo album intitolato “Guardians“. Il gruppo non ha bisogno certo di molte presentazioni, trattandosi di una delle formazioni più importanti del Metalcore anni 2000. Dopo la fondazione nel 2003 a Lancaster, Pennsylvania, i Nostri ha firmato con Solid State Records l’anno seguente, saltando alla ribalta con il secondo album, “Messengers”, nel 2007. In seguito hanno proseguito a farsi conoscere suonando con altri gruppi maggiori del genere quali Architects, As I Lay Dying e altri, componendo nel frattempo quattro EP e otto album, escluso questo. Il genere è inconfondibilmente Metalcore classico: si sentono i riff metal aggiunti a ritmi Hardcore Punk e componenti Progressive, presentando influenze da gruppi come Meshuggah e i The Dillinger Escape Plan, con parti melodiche che hanno ispirato molti gruppi usciti successivamente. La batteria è pestata e ritmata, basso e chitarre distorti sanno passare da parti relativamente lente, scandite e tendenzialmente con pochissimi accordi (solitamente note singole) dei breakdown a parti più dinamiche e melodiche. L’album è composto da 11 brani di una durata quasi costante di quattro minuti abbondanti per un totale di circa 49 minuti pestati e vivaci.

Tra le canzoni rilevanti:

  • Defender“: quarto pezzo dell’album. Uscito circa un mese fa come singolo, il fatto che abbia mezzo milione di visualizzazioni la dice lunga su questo brano. Ritmi sostenuti dall’inizio alla fine, atmosfera tesa, breakdown spettacolari e riff e intermezzi orecchiabili. In breve, un pezzo completo che rende l’idea sull’album, oltre ad avere una marcia in più rispetto a “Bones” (uscita anch’essa come singolo), ma che comunque ha un suo perché.
  • Lighthouse“: quinta canzone. Si tratta di un pezzo più lento e melodico, ma sempre restando nell’ambito Metalcore. Il brano si rifà soprattutto agli ultimi album se si guardano atmosfera e composizione, con parti lente, melodiche, e vagamente tristi.
  • Bloodletter“: ottavo pezzo. Il brano è il più corto dell’album, ed è un concentrato di brutalità. L’influenza dei Meshuggah è più rilevante qui che altrove, ma rimane comunque la parte melodica tipica degli August Burns Red, e il lungo breakdown è uno dei migliori dell’album, oltre al fatto che starebbe bene anche in un pezzo Djent.

Rispetto ai primi album, dove la proposta sembrava un miscuglio di At the Gates, Meshuggah e vagamente i Dark Tranquillity, gli statunitensi si sono rilassati, riducendo i breakdown e rendendoli più articolati e, per certi versi, velati vista l’aggiunta di effetti, voce e giri armonici. Anche l’atmosfera creata è più delineata ed elaborata rispetto alla raffica di “sprangate nei denti” che era “Messengers”. D’altra parte non ci sono nemmeno gli intermezzi placidi che costellavano “Leveler” o, in forma minore e più grintosa e coerente, “Rescue & Restore”. Si sente comunque l’evoluzione degli ultimi album, ma non si arriva alla complessità dei pezzi come in “Found In Far Away Places”, mentre si può percepire in più casi la vicinanza stilistica con “Phantom Anthem”, ma a differenza di questo c’è un aumento nelle parti più sostenute, grintose e nel contempo anche melodiche, lasciando le parti lente a un ruolo più marginale. In poche parole, se si era sentito un calo nell’album precedente questo è di sicuro un rimbalzo potente e deciso, non il migliore album dell’anno (è presto per dirlo), ma probabilmente uno dei migliori della loro carriera.

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