WHITECHAPEL – The Valley

by Nicola Mercuriali

Evoluzione.

Ecco cosa non ci si aspetterebbe da un gruppo deathcore, da un gruppo che ha fatto la storia del genere, che è già stato criticato per le precedenti uscite sottotono. Ulteriore evoluzione.

I lontani tempi di “This Is Exile” (11 anni fa, giusto per sentirsi vecchi) sono finiti, le persone sono cambiate, maturate, la sterile etichetta “deathcore” sta stretta e si ha qualcosa di nuovo da dire. Si sono ampliati gli orizzonti e le sonorità hanno acquisito un nuovo spessore.

The Valley” non va approcciato come un disco classico, con ogni canzone scritta e funzionante a sé, con 40 minuti di possibili singoli slegati tra di loro, con la hit fatta apposta per pogare ai concerti e fine lì. I Whitechapel portano con quel “Based on true events” sotto al titolo, con una copertina che pare una locandina da film un concept album dalle tinte amare e oscure, da ascoltarsi tutto d’un fiato. Le canzoni sono legate tra di loro, unite da leitmotiv di riff e groove che ricompaiono dopo qualche traccia, lasciando più spazio ai testi di Phil Bozeman che parlano della sua infanzia con una veracità e una malinconia che fanno male. La pura cattiveria che potrebbe ispirare il deathcore è lasciata da parte per far spazio a sentimenti profondi come la rabbia verso se stessi, il terrore dell’innocenza infantile, la tristezza per un passato fuori dal proprio controllo. Una carica emotiva che straborda oltre i confini di un solo genere.

When a Demon Defiles a Witch” apre l’album con delicate melodie di chitarra per diventare poi un aggressivo riff death, mostrando la particolare dicotomia della traccia (e in parte anche dell’album intero) che è la perfetta summa dell’intero lavoro: violenta e melodica, rabbiosa e malinconica. I clean di Phil compaiono nel momento più perfetto per loro, instillando quel seme di tristezza che le chitarre pulite e il ritornello aiutano a fare crescere nel sentimento cardine dell’album. Ciò che segue, da “Forgiveness Is Weakness” – la traccia più puramente deathcore e cattiva di tutta la release – a “Doom Woods” – i cinque minuti atmosferici che concludono tutto – non è in realtà una semplice declinazione della prima canzone, ma riesce a rimanere autonoma e originale nel rielaborare i temi musicali prima mostrati. Ogni traccia, pur legandosi integralmente alla struttura dell’album, rimane ben riconoscibile ed unica tra le altre nove. Il deathcore suonato è più incentrato a creare un’atmosfera che a rimanere nei suoi stilemi (cosa che mi ha ricordato il lavoro svolto in chiave technical death dai Rivers of Nihil con “Where Owls Know My Name”) e si lega a diverse influenze senza in realtà snaturarsi e perdere di aggressività: i diversi breakdown presenti, sempre sapientemente costruiti e piazzati, nobilitano il loro nome, ad essere onesti. Interessante è vedere come i Whitechapel mischino al loro suono monolitico differenti influenze da generi e gruppi: “Third Depth” ha una linea vocale a singhiozzo che ricorda i Tool, la successiva “Lovelace” adotta una fantastica soluzione a là Gojira tra i ritornelli disturbanti, “Black Bear” si destreggia in un ambiente quasi djent e infine “Brimstone” è in tutto e per tutto un groove dal Black Album dei Metallica. “Hickory Creek“, cantata completamente in pulito, si discosta dalle idee di deathcore e sviluppa la melodia anticipata nella prima traccia, con risultati stupefacenti.

Il gruppo ha sentimento nel suonare le canzoni, la musica trasmette e amplifica le emozioni dei testi e il risultato è un lavoro compatto e toccante. La voce, sia growl che clean, è l’assoluta protagonista e ancora una volta dimostra come Phil Bozeman sia uno dei più importanti e versatili cantanti di tutto il metal moderno. Wade, Savage e Householder costruiscono con le loro chitarre non solo muri di riff e breakdown, ma, oltre alle sopracitate magnifiche linee pulite, anche fantastici assoli che appaiono come gemme nel panorama di desolazione lasciato dalla musica, intrecciandosi con il basso di Gabe Crisp che la produzione lascia ben udibile e che riesce a brillare. Doveroso è l’inchino alle capacità di Navene Koperweis, ex batterista di Animosity e Animals as Leaders e correntemente nella formazione tech death Entheos, che assolve il suo compito di sostenere l’intero album con una maestria versatile e originale assolutamente degna di nota.

Evolversi verso sonorità più abbordabili senza svendersi, maturando le composizioni e portando un opera al grande pubblico con consapevolezza è qualcosa che spesso non si trova nel panorama metal, ma che una volta fatto porta grandi risultati. Applausi a chi sa farlo, applausi ai Whitechapel.

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