Trovare le parole per iniziare una recensione del genere è tutt’altro che facile: fortunatamente, “Shadow Work” è un album che per quanto agrodolce rende giustizia al musicista incredibile che rispondeva al nome di Warrel Dane.
Al di là del dilemma etico riguardo un disco postumo, a parere mio Century Media è riuscita a donare ai fans un’ultima occasione per godere del talento del compianto ex frontman dei Nevermore.
Il lavoro fatto dal produttore tedesco Lasse Lammert è titanico. Oltre alla produzione eccelsa, rimettere insieme un disco partendo da delle idee di brani non finiti e ricostruendo le rimanenti parti vocali da preproduzioni, demo, perfino da bozze e appunti vocali registrati con lo smartphone ha costituito un’ impresa di eccezionale valore. Ed è su questo dettaglio che voglio iniziare a parlare di quello che “Shadow Work” è musicalmente. Pubblicato in quello che è il suo stato embrionale, almeno per la parte vocale, dà il metro di quanto la musica di Warrel Dane fosse autentica e viscerale, senza artefatti, senza trucchi, di quanto il suo talento fosse sempre sul piatto e senza compromessi.
Il pathos, l’emozione e l’espressività che hanno contraddistinto la sua prolifica carriera emergono fin da subito, l’impronta narrativa e recitata della sua incredibile voce è sempre in agguato, perfino da quelle che, per quanto ne sappiamo, potrebbero essere delle bozze registrate con un telefono. A testimonianza di quanto fosse determinante il suo contributo ed approccio, i rimandi al sound dei Nevermore e dei Sanctuary sono abbastanza costanti ma senza mai mettere in ombra il lato più delicato e melodico che ha contraddistinto il suo lavoro personale.
Essere più oggettivi possibile fare un paragone con il suo precedente disco solista è impossibile, in quanto la formazione e le circostanze sono totalmente diverse. In quello che è un gran bel lavoro, però, ci sono alcuni brani più curati e rifiniti che emergono rispetto al resto, come ad esempio l’intro “Ethereal Blessing“, “Madame Satan“, che è forse il brano più vario e complesso dell’intero disco, con una struttura dinamicissima, un intreccio di ben tre voci (a quella principale si uniscono una voce femminile e una in growl, una sorta di novità per la musica di Dane), “Disconnection System“, dalle sonorità Nevermore dei tempi d’oro e la title track, che con il suo ritornello rapisce immediatamente. C’è anche un immancabile rimando alla cultura goth, di cui Dane era un grande estimatore, con la cover di “The Hanging Garden” dei The Cure. Quasi in chiusura, la bellissima e struggente “Rain“, un autentico colpo al cuore degno di andare rappresentare quella che è la fine terrena di un artista che sicuramente rimarrà sempre nel cuore dei suoi seguaci.