È obsoleto parlare ancora di death metal, oggi? Quel death violento, che parla a sentimenti profondi, antichi, ha già detto tutto? Ha già speso tutte le sue energie e si è accasciato in un angolino, dimenticato da tutti, utilizzato solo come filler tra qualcosa di nuovo e qualcos’altro che non è ancora morto?
Venom Prison.
Solo questo. Due parole, una risposta. Netta e tagliente come il loro suono, monolitica ed esplicativa come la loro rabbia.
Il quintetto gallese ha liberato la seconda fatica “Samsara” a tre anni di distanza da “Animus”, il concentrato di brutalità death metal e aggressività hardcore che li aveva piazzati nei radar di tutta la scena mondiale come uno dei gruppi più promettenti di tutto il genere, ed è riuscito a superarsi. Hanno preso i già laceranti suoni del primo album e li hanno amplificati, mescolandoli con una serie di influenze dall’intero spettro del metal più estremo. Le sonorità hardcore e grindcore, unite dal groove dei breakdown di matrice deathcore e slam al death metal più ancestrale si sono rivelate la formula perfetta per mostrare prepotentemente al mondo la loro rabbia più autentica. Sembrava difficile poter superare “Animus” su ogni fronte, invece i Venom Prison ci riescono addirittura con tranquillità, facendo progredire il loro sound per colpire ancora più forte l’ascoltatore.
La parola chiave di questo album è dinamismo. Il suono evolve tra le canzoni e nelle canzoni, muta forma, si adatta agli stili implementati, portati in trionfo come vestigia di un passato che si rinnova. Il gruppo mescola le proprie origini hardcore tra il più puro dei suoni death e imbastardisce la belva in una chimera imponente capace di spazzare via miriadi di gruppi definiti “brutal”. Già il singolo “Uterine Industrialization” mostra la capacità di saltare da riff di matrice death a breakdown a là Dying Fetus a veri e propri “slam” brutali e impietosi a ritmiche più hardcore e grind. L’abilità di amalgamare il tutto in un tessuto coerente e memorabile, senza momenti morti, senza ripetizioni o sbrodolate, catturando e trattenendo l’attenzione per tutto l’album è qui mostrata perfettamente.
Anche la voce di Larissa Stupar si è evoluta, aumentando il proprio range da un agonizzante grido più hardcore ad una pletora di growl e scream che si legano al mondo death metal. Il loro utilizzo è sempre calibrato e giusto per la situazione, è impossibile annoiarsi ascoltandoli e anzi rendono l’intero lavoro viscerale e originale. I suoi testi sono la ciliegina sulla torta: fortemente critici dei mali del mondo moderno, analizzano e distruggono senza pietà il marcio che si trova nella nostra società; dall’omofobia al razzismo, dal maschilismo alla corruzione, dalla follia all’autolesionismo, senza mai scadere nel banale.
“Samsara” è un lavoro magistrale perché sa non annoiare. L’alternarsi di velocità e brutalità è misurata con precisione eclatante, lasciandoci sempre sbalorditi. Le melodie vestono con un tocco di classe lo scheletro aggressivo di una sacralità e malinconia uniche, magiche.
Metal Hammer li ha definiti “il nuovo volto del death metal” perfettamente a ragione. Questo è il suono dell’originalità, del superare gli stereotipi, del creare qualcosa di unico. Violenza, brutalità e melodia si uniscono in un nuovo corpo che esalta tutte le sue facce con precisione chirurgica e lacerante lucidità. Allora quale titolo migliore se non “Samsara”, la dottrina buddista del ciclo di vita, morte e rinascita e quindi della sofferenza eterna e dell’illusione terrena, per descrivere un album così tagliente? E quale artwork migliore se non l’agonizzante candore del corpo femminile di Eliran Kantor per preparaci alle violenze più inaudite?
Solo il tempo ci dirà quali gruppi e quali release si dimostreranno pietre miliari, quali ci lasceranno a bocca aperta anche fra dieci anni, quali ameremo come amiamo oggi i classici degli anni ’80 e ’90, ma io intanto porgo sul tavolo della Storia “Samsara” dei Venom Prison.