Michael Keene è tornato.
Come Michael Keene? E i The Faceless, dove sono? Ci sono, ci sono, tranquilli, ma mai come in questo ultimo album si può parlare della centralità del mastermind americano, perché bene o male la band gira intorno a lui: gli altri musicisti vanno e vengono, le sliding doors sono all’ordine del giorno, ma Keene non demorde, continua imperterrito a ruotare al centro del suo universo. E questo universo, per quanto enigmatico e misterioso, affascina sempre.
Dopo cinque anni da quel capolavoro (a parere del sottoscritto) di “Autotheism”, innumerevoli e repentini cambi di formazione, tour annunciati, in parte cancellati e poi conclusi in una maniera o nell’altra, l’attesa per il nuovo album della band era comprensibile e iniziava a salire. C’è da dire che Keene si è fatto desiderare, rilasciando già nel 2015 il singolo “The Spiraling Void” (contenuto nell’album in oggetto) per poi riscomparire dietro le quinte, ricomparendo con due singoli quest’estate volti ad anticipare il qui analizzato “In Becoming A Ghost“.
E l’album è lo specchio di questi ultimi anni della band: mutevoli, inaspettati, sorprendenti, ma in parte confusionari, inconcludenti e con un retrogusto di occasione persa a metà, mista a quella sensazione di un album che è stato confezionato in fretta. Perché chi pensa che Keene & Co. abbiano lavorato su quest’album dal lontano 2012 è totalmente fuori strada, e molto probabilmente è stato in buona parte scritto dallo stesso Keene negli ultimi due anni. La partenza dell’album è di quelle che fanno ben sperare: dopo l’intro di pianoforte della title-track, “Digging The Grave” ci scaraventa in faccia l’anima più violenta e più death metal della creatura di Keene, che poi si evolve e muta nelle sue innumerevoli sfaccettature. Già da questa traccia si nota una certa vena avantgarde, presente in minima parte sul precedente full length, che prende piede in maniera prepotente, spodestando il progressive e relegandolo in secondo piano. Esempio lampante di ciò è “Cup Of Mephistopheles“, che miscela il death metal con inserti drum ‘n’ bass, il tutto in un ambiente claustrofobico e “malsano”: il pulito di Keene e lo scream/growl di Borgeron si alternano in maniera che definire efficace è riduttivo, sorretti da un impianto strumentale oliato alla perfezione. Canzone da far ascoltare a chi ritiene che il metal sia un genere stantio e poco innovatore/innovativo. La prima parte dell’album è un continuo picco di qualità e di sorprese, perchè “Black Star” e “The Spiraling Void” sono tutto tranne che canoniche tracce death metal: più vicine al prog di “Autotheism” e meno folli e stranianti della vicina “Cup Of Mephistopheles“, presentano una vena più melodica che le fa uscire dalla categorizzazione di prog death, per giungere addirittura fino a lidi progressive rock.
Da qui iniziano i problemi, ma senza che ce ne siamo accorti sono già iniziati. Dalla seconda parte si assiste a un drastico calo della qualità, non a livello sonoro perché i The Faceless ci sanno ampiamente fare, ma a livello compositivo: la voglia di sperimentare si spinge troppo oltre, ed entrando in territori avantgarde i nostri perdono la bussola. La cover dei Depeche Mode “Shake The Disease” è un esperimento interessante, ed è l’ultimo colpo di coda di un disco che poi si trascina stancamente verso la fine. La new wave della band inglese è un ottimo punto di inizio per i The Faceless e la loro cover: infatti qua il metal si tinge di elettronica e di rock, un caleidoscopio di generi e di epoche musicali diverse che a un primo ascolto può lasciare di stucco, specie dopo la prima metà del disco puramente metal, ma che con gli ascolti cresce e si guadagna il proprio posto e il proprio spazio. Spazio che viene, però, squarciato a metà con questa canzone: da qui in poi, tra due brani suonati bene ma anonimi nel complesso (“I Am” e “The Terminal Breath“), e due intermezzi, l’album si perde nella sua confusione e rimane inconcluso.
Inconcluso e incompiuto. Inconcluso perché dopo una prima parte di altissimo livello, che non ha nulla da invidiare al masterpiece “Autotheism”, e l’esperimento interessante della cover, non mantiene le attese e crolla sul più bello (la scelta di piazzare due intermezzi consecutivi è una cosa che non mi sono ancora riuscito a spiegare). Incompiuto perché, conti alla mano: 10 tracce, 3 intermezzi, 3 brani già rilasciati, 1 cover. Rimangono tre brani veri e propri da scoprire all’interno dell’album, e due di questi rientrano nella seconda parte mediocre del disco: un po’ poco, dopo cinque anni di attesa e considerando la caratura della band. A ciò aggiungiamo una produzione che, per portare al massimo la pulizia dei suoni, li snatura di buona parte della loro potenza, e cosa abbiamo alla fine?
Un album dai due volti: un volto oscuro, mutevole ma spaventosamente pieno di spunti e di sperimentazione, e un volto anonimo, privo di qualsivoglia mordente e dominato dalla fretta e dalla stanchezza. Il giudizio finale è ampiamente sufficiente, ma aspettarsi di più a Keene e i The Faceless era assolutamente lecito. Bene ma non benissimo.