Il 28 agosto esce per Transcending Records il terzo album dei romani SVNTH (Seventh Genocide), intitolato “Spring In Blue”. Ci troviamo davanti ad un’altra splendida produzione di questo martoriato 2020.
Con un background musicale ed artistico molto variegato, i SVNTH hanno sperimentato le più varie derivazioni musicali passando dal blackgaze nostalgico di “Breeze Of Memories” del 2015 arrivando nel 2017 alla psichedelia tinta di nero di “Towards Akina”. Questo nuovo “Spring In Blue” è un salto in avanti di notevole qualità, dove i Nostri, parlando per etichette, scelgono un atmospheric black metal tinto di doom ad un sapiente miscuglio di varie influenze rock. Ci si trova di tutto, dal prog anni ’70 allo shoegaze nato vent’anni dopo, e tutto si sposa alla perfezione in un cammino imprevedibile.
È un viaggio affascinante e inaspettato, oserei addirittura dire sensoriale, quello che ci si trova una volta fatte partire le sei tracce di “Spring In Blue”. Un viaggio che richiede pazienza, perché nonostante l’ora quasi precisa di riproduzione, i brani variano da una lunghezza di massimo 14 minuti al minimo di 6 (escludendo l’introduzione); ed è un viaggio che al primo ascolto non risulterà sicuramente chiaro e lampante. Va assaporato con calma, godendo di ogni brano nei suoi particolari.
La prima tappa, “Who Is The Dreamer?”, è già una scelta peculiare: è infatti una strumentale dal forte sentore doom con qualche passaggio che fa venire in mente il prog, un bell’assolo finale fa da apripista alla tappa seguente.
“Erasing Gods’ Towers” è assolutamente atmosferica, lasciando quasi immaginare un scenario post apocalittico, grazie anche al riff malinconico fatto di una manciata di note solitarie, vagamente orientaleggiante. Aggiungendosi dunque gli strumenti mancanti e la parte vocale, ritorna la vena vagamente doom che sembra in un certo senso fare da filo conduttore dell’album, ma che man mano va inasprendosi. La prima pura esplosione black metal è gelata, ma lascia spazio anche un lungo momento di triste e inquietante delicatezza, grazie al malefico bisbigliare che lo accompagna. L’aggiunta di un doloroso ma leggiadro coro femminile è l’ultima pennellata che mancava per completare il quadro, con la doppia cassa infuriata e la voce aggressiva a controbilanciare il tutto.
La terza tappa è “Parallel Layers”, la cui lunga introduzione potrebbe quasi essere un brano a sé, contraddistinto da una chitarra acustica che man mano va inasprendosi diventando un’elettrica, l’atmosfera rimane però aggressiva e sognante, in un’interessante contraddizione. La dolcissima parte melodica che pian piano comincia ad introdurre il brano è quasi impalpabile, appesantendosi soltanto a quattro minuti dall’inizio. Forse anche per questo l’arrivo del black metal sorprende ma non così tanto, rivelandosi ancora crudo e gelido. Forse addirittura nel svolgimento si tinge di un non so ché di viking, andando ad aumentare ancora la varietà stilistica proposta dai SVNTH. Dopo tutta questa violenza coglie di sorpresa un’interruzione, la quale ci fa tornare alla leggiadria atmosferica iniziale, ma la conclusione del brano è affidato ad un’ultima esplosione di violenza.
La bellissima “Wings Of The Ark” si presenta da subito come un brano puramente black metal, ma sorprende totalmente con un passaggio quasi indie rock, reminiscenze di certe band degli ultimi ’90 o primi 2000, una contrapposizione riuscitissima e che in effetti mi ha convinto a tentare di ascoltare quest’album. A questa parte viene aggiunta la voce graffiante ad opera di Marco Soellner (Klimt 1918, Raspail), cantante di tutto il brano, andando a creare una giustapposizione assolutamente fantastica che sfocia di nuovo nel black metal violento. Una creatura ibrida straordinaria, specialmente nel meraviglioso finale.
Alla quinta tappa troviamo la burrascosa “Chaos Spiral In Reverse”, che vede come ospite speciale Josiah Babcock (Uada) alle batterie. Infatti, già dall’introduzione infernale non si prospetta nulla di buono… In senso buono. Anche questo brano è da subito infuriatissimo, una vera tempesta delle più nere. L’interruzione permette un attimo di dolce respiro, abbandonandosi ad una allertata leggiadria. Un bellissimo assolo va ad arricchire questa parte, che va appesantendosi fino a ritornare alla rabbia ancestrale dell’introduzione. Il brano comincia la sua lunga conclusione sul mantra minaccioso ripetuto all’infinito, arricchito di splendidi dettagli musicali anch’essi ipnotici che vanno in effetti a richiamare il titolo. Si conclude il tutto con il ritorno di un’atmosfera leggiadra e sognante. Una meraviglia.
La mia personale preferita è però la canzone che va a concludere il tutto, la splendida “Sons Of Melancholia”. Si comincia con un malinconico mid-tempo, e qui le varie influenze si sentono al meglio: il lungo bridge ricorda di nuovo un certo tipo di rock anni ’90, prima di sfociare in un black metal al permafrost. La sezione centrale è spettacolare: dopo un riff particolarmente melodico (in cui il basso fa sentire la sua gradita presenza), si passa ad un assolo da brivido, accompagnato da un rock spettacolare che anche qui farà venire in mente qualche grandissimo classico, in senso più che buono. Da qui però approdiamo in un funereo e pesantissimo doom tinto dei colori più oscuri; come tocco finale il ritorno di evocativi e inquietanti cori femminili.
Insisto con il dire che qui in Italia abbiamo della qualità straordinaria che forse siamo noi per primi a non apprezzarla a dovere; sicuramente non lo facciamo apposta, impegnati com’é giusto che sia a tenere sotto controllo anche la scena internazionale, ma se poi escono perle di questo calibro… Questo “Spring In Blue” è una vera meraviglia. Consigliatissimo a chi non ha paura di uscire dagli schemi, a chi cerca nel suo amato black metal una ventata di aria fresca, ma specialmente a chi pensa che il nostro genere preferito stia morendo. Questo album è l’ennesima dimostrazione di quanto il metal sia vivo e stia imparando a resistere, non avendo paura di andare a cogliere altre fonti per rendersi unico e speciale. Imperdibile.