A volte un ascolto può lasciare senza parole, ma bisogna pur ritrovarle per dar modo al prossimo di comprendere l’emozione da esso scaturita, dunque procediamo con una modesta analisi di questo grandioso lavoro pubblicato da Nuclear Blast ed in uscita il 5 luglio 2019.
Già dal primo ascolti sono assolutamente evidenti le differenze stilistiche rispetto ai precedenti grandi successi della band, tuttavia sono palesi, allo stesso modo, anche le similitudini che ci permettono di riconoscere la loro impronta pur dopo tanti anni; la prima di queste è proprio il fatto che l’album necessiti di più ascolti per essere compreso appieno, in quanto rappresenta un vero e proprio ascolto impegnato, il che costituisce una costante nei lavori prodotti dai Rhapsody. Il mio consiglio sarebbe, per coloro che desiderano conoscere le molteplici sfaccettature di questo disco, di riprodurlo in cuffia e possibilmente in un momento di relax durante il quale non si corra il rischio di essere interrotti da intromissioni esterne.
L’album costituisce un viaggio introspettivo in piena regola, volto ad indurre una riflessione personale ed innescare un’auto analisi che porti l’ascoltatore a conoscere più profondamente sé stesso – fulcro fondamentale dell’intera composizione. Bisogna dire che oltre al viaggio interiore, questo album possa in qualche modo costituire anche, in un certo senso, un viaggio terreno in luoghi esotici ed interessanti, viste le numerose contaminazioni etniche (anche in termini di strumenti musicali utilizzati) inserite nella composizione; un esempio d’immediata verifica è il brano “Zero Gravity”, terza traccia e title track dell’album, nella quale è presente un pezzo marcatamente arabeggiante (non una novità nelle composizioni di Turilli, il quale mostra una certa simpatia per il mondo orientale e che aveva già inserito musica folcloristica di matrice araba nel precedente lavoro “Prometheus” dei Luca Turilli’s Rhapsody).
L’album si apre con “Phoenix Rising”, primo singolo pubblicato e brano decisamente emblematico, in quanto potrebbe senza sforzo raccontare proprio la storia di questa nuova collaborazione fra i due grandi nomi italiani: dopo i vari cambi di rotta, i nuovi Rhapsody rinascono e danno nuova forma (come recita il motto della band) alla loro arte, parimenti ad una fenice che rinasce dalle proprie ceneri più forte di prima, proprio in virtù del sound molto moderno, cinematografico ed a tratti futuristico che ora caratterizza la loro produzione. Tutto questo, mantenendo alcuni dei maggiori tratti distintivi del marchio Rhapsody: la solennità di ogni singolo brano, cori maestosi che si innalzano al cielo, virtuosismi sparsi ovunque e celebrazione del divino (prima come un guerriero che dà la vita per la causa, ora come umanità del singolo individuo in connessione col divino presente in ognuno di noi). Un tratto distintivo di questo album che concorre a renderlo ancor più interessante, è proprio il contrasto fra gli elementi moderni (il conto alla rovescia del lancio dell’Apollo 11, tastiere che ricordano colonne sonore di film a tema fantascientifico, ambientazioni cyber) e quelli classici (il pianoforte, le voci altisonanti, l’energia insita nella matrice Metal resa da chitarre e batteria), oltre naturalmente all’incredibile duetto con Elize Ryd degli Amaranthe nel brano “D.N.A. (Demon and Angel)”. Irrinunciabile è l’utilizzo della lingua italiana, inserita in vari momenti dell’intera composizione. Altra evidenza di questo lavoro sono le ispirazioni a grandi rappresentanti della storia musicale, come ad esempio i Queen, i quali fanno capolino nel brano “I Am”, oppure la ricerca di un sound più progressivo che strizza l’occhio ai Dream Theater – anche nei testi.
Rimarchevole è il lavoro svolto da Fabio Lione, storica voce del gruppo, la quale non può che immediatamente venir in mente quando si legge o sente il nome “Rhapsody”; come sempre e forse più che mai, dà dimostrazione di eccellenti capacità espressive e comunicatività emotiva, come solo una voce potente come la sua può fare, mettendo a tacere qualsivoglia pensiero superfluo. Non ci si sarebbe potuto aspettare null’altro, sebbene si tratti di un ascolto diverso e sorprendente: come da tradizione, si esibisce con sicurezza su qualsiasi registro ma l’emozione raggiunge il suo momento più alto una volta spostatosi sul registro lirico, con il quale Lione dà sempre prova di grande maestria. A tal proposito, l’ottavo brano intitolato “Amata Immortale” rende perfettamente l’idea della capacità del cantante di toccare il cuore dell’ascoltatore: il testo, interamente in italiano, è intonato da una voce struggente; le parole scelte con accuratezza e sapienza giungono come frecce all’orecchio, scatenando un alternarsi di delizia e malinconia, gioia ed angoscia, accompagnate da un duetto surreale e da un pianoforte principe della scena, di grande effetto e navigato direttore della composizione di questa canzone. Nonostante “Arcanum (Da Vinci’s Enigma)”- ultimo pezzo del disco – rappresenti forse meglio di qualsiasi altro il percorso intrapreso dai Rhapsody, con le sue atmosfere da thriller storico da grande schermo , i richiami celebrativi della nostra cultura musicale italiana pur con lo sguardo rivolto verso il mondo al di fuori dei nostri confini, la similitudine quasi inevitabile con un caleidoscopio per via del numero incredibile di elementi che la compongono, la ballad italiana resta comunque – a parer mio – la best one dell’album. Troppo ardente per passare inosservata, troppo commovente per sperare di vincere la battaglia contro le lacrime.
Unica conclusione: i Rhapsody sono tornati.