So perfettamente di rivolgermi ad un pubblico ben più colto di me, ma questa volta mi prendo la mia meritata rivincita (meritata, si, perché a sudare l’anima davanti al pc ci sono io e non voi) nominando una one man band che scommetto vi suonerà nuova. Sto parlando dei Mother of All e, in realtà, sono una one man band solo in teoria, poiché ad affiancare il solo membro ufficiale Martin Hauman (batteria e voce) troviamo il supporto del giovane chitarrista danese Frederik Jensen e del ben più stagionato Steve DiGiorgio sulle quattro corde, che molti di voi conosceranno per la sua attività in band come Death, Control Denied e Sadus per citare solo le più prestigiose.
“Age of the Solipsist”, questo è il titolo del disco, non è realmente da considerarsi il debutto del progetto Mother of All, in quanto dal 2014 ad oggi hanno già visto la luce due EP ed uno Split, tutti con lineups diverse da quella odierna; trattasi dunque del primo full length della band, il cui formato rimane comunque apprezzabilmente compatto grazie ai suoi soli ventotto minuti spalmati su sette tracce.
Chi mi conosce personalmente sa bene quanto abbia amato il buon vecchio melodeath svedese di metà anni ’90 e di quanto senta la mancanza di artisti bramosi di ricalcare un po’ quelle sonorità ormai del tutto snaturate anche all’interno del genere stesso. In tal senso questo disco ha acceso in me una speranza che avevo riposto l’ultima volta in band sbocciate nei primi ‘00 come Arsis e Quo Vadis (guarda caso, quest’ultimi capitanati proprio da DiGiorgio); posso quindi finalmente riassaporare un po’ il sound di “The Jester Race” senza andare a riascoltarmelo per la quattrocentesima volta, diamine!
La proposta musicale di “Age Of The Solipsist” è per l’appunto abbastanza fedele a tutto quel collettivo di band che potremmo definire della vecchia scuola del melodeath svedese di Göteborg (da qui il Gothenburg sound), in chiave però decisamente più ricercata. Del resto sarebbe uno spreco non valorizzare le abilità tecniche di assoluto livello del trio.
La prima delle sette tracks, “Autumn”, è a conferma di quanto detto un vero tuffo nel passato; il riffing, il sound, lo scream un poco strozzato così come l’intermezzo acustico sono un omaggio chiaro ed incontestabile ai migliori In Flames, impossibile non apprezzare.
D’altro canto, se in apertura i nostri hanno optato per un brano di stampo “classico”, già a partire dalla successiva “We Don’t Agree” la faccenda si fa molto interessante. Qui il sentore è marcatamente più technical con un pizzico di thrash portato sui lidi più esasperati del genere. Quattro minuti spietati , nulla da aggiungere.
La direzione estrema del disco diviene ancor più nitida in “Curators Of Our World Scope”, traccia che con i suoi taglienti e poliritmici riffs si rivela essere un altro assalto neurale, assolutamente non indicata in caso di mal di testa (raccomando cautela anche qualora foste sani: potrebbe causarvelo).
Siamo dunque giunti a metà disco ed a fare da spartiacque tra le due metà troviamo proprio la title track che ci riporta su sonorità un po’ più appetibili, il rapporto tra le note sembra aver ritrovato una certa armonia e le orecchie ringraziano. C’è da dire tuttavia che, non fosse per l’epicità galoppante del ritornello, il tutto risulterebbe un poco sottotono.
Ci avviamo così verso la l’epilogo con il trittico “At The Edge Of A Dream”, “Blood Still Owed” e “Feel The Pain”, che in un contesto rissaiolo potremmo paragonare rispettivamente ad un buon destro sul mento, una ginocchiata ben assestata sullo stomaco ed una rovinosa caduta causata dalla pozza di birra fatta cadere accidentalmente dal tuo socio, che sancirà la fine dello scontro tra le risate dei presenti.
Ora, tralasciando i miei tentativi di risultare simpatico, effettivamente la metafora è assai pertinente.
Il primo dei brani sopracitati è…roccioso, ignorante? Somiglia per certi versi al precedente “Curators of Our Worlds Scope”, del quale è il fratello culturista più grosso e pomposo (tranne per lo screaming che, ironicamente, risulta invece più tagliente). “Blood Still Owed” si mantiene all’incirca sulla stessa linea, si pregia di un bel riff cattivo che però non riesce ad evolvere con il mordente che avrei voluto.
“Feel The Pain” è la settima traccia dell’album, il che vuol dire che siamo arrivati al capolinea. Questo brano l’ho trovato sinceramente bizzarro (attenzione, non brutto) e mi domando cosa ci faccia qui in mezzo con la sua aura rockeggiante che probabilmente mi ha colto troppo di sorpresa. Diciamo che, in questi casi, si cammina sul sottile filo tra mediocrità e genio incompreso.
Detto questo, per ricapitolare quanto espresso in precedenza, “Age Of The Solpisist” si presenta al pubblico nelle vesti di un ottimo “debutto” ricalcante alcuni sentieri del passato ma con un solido sguardo al futuro, dove le competenze unite al bagaglio esperenziale di alcuni membri del trio sinergizzano alla grande in una miscela di tradizione e stravaganza.
L’unico “neo”, impropriamente detto in quanto personalmente non ne ho sentito davvero la mancanza, lo abbiamo in una magra offerta di solos di chitarra, anche se qualcosa c’è ed è assolutamente qualitativo.
Mother Of All è, in conclusione, un rispettabilissimo progetto che spero di vedere negli anni a venire in una posizione di maggior rilievo, poiché è lì che merita di stare.
Tracklist:
01 Autumn
02 We Don’t Agree
03 Curators Of Our World Scope
04 Age Of The Solipsist
05 At The Edge Of A Dream
06 Blood Still Owed
07 Feel The Pain