I modenesi Laetitia In Holocaust sono tornati con il loro quarto album, “Heritage”, e ve lo dico subito: è uno dei migliori album del 2020. Ecco, se vi bastava sapere questo potete anche chiudere qui la recensione, perché in effetti non servirebbe dire altro.
Uscito il 10 luglio per Niflhel Records, “Heritage” porta con sé anche una bellissima notizia: i Nostri hanno deciso di diventare una live band, arruolando due nuovi membri, Marco L. e Riccardo Z., entrambi alle chitarre. Dal prossimo anno, quindi, Covid permettendo, potremmo finalmente vedere la compagine in azione sul palco.
Se invece dirvi che questo è uno dei migliori album del 2020 non vi basta e volete saperne di più, allora d’accordo. Parliamo di “Heritage”. Ma come farlo in maniera da rendergli giustizia? Innanzitutto, parliamo di numeri: siamo di fronte a sette brani per un totale di trentadue minuti di riproduzione, trentadue minuti dei più oscuri e ghiacciati. Di questi sette brani c’è tutto e niente da dire: potrei ad esempio non dirvi della produzione assolutamente cristallina e perfetta in ogni suo minimo dettaglio. O potrei sorvolare sul fatto che è rimasto quello stile a là Mgła che mi aveva fatto innamorare di loro con il precedente “Fauci Tra Fauci”, che però ha assunto un tono al permafrost che fa ricordare i bei tempi andati, ma pur sempre con quel tocco personalissimo che anche stavolta ha prevalso su tutto. O potrei non menzionare lo splendido lavoro di basso che meriterebbe una recensione a sé; questo strumento assume un ruolo da protagonista in ogni brano, e la sua voce si fa sentire al pari di quello della chitarra, come suo perfetto complemento. Omettendo quindi tutti questi dettagli, cosa rimane?
Rimane l’inquietudine pazzesca di “The Moor”, singolare introduzione al viaggio infernale di “Heritage”, atmosferica così tanto da far venire i brividi, specialmente con quelle poche calcolate note di pianoforte.
Ne avanza la bellissima “Dissolution in Black Pastures”, gelida e brutale, di cui si sottolinea una batteria straordinaria; come non elogiare la sezione ritmica subito dopo la metà brano, ritualistica quanto basta e anche qui vagamente atmosferica?
Specialmente rimane il capolavoro dell’album, la title-track. Oltremodo violenta, velocissima e incespicante nei momenti giusti: spettacolare il cambio velocità e specialmente il cambio di atmosfera che lo segue con l’introduzione di una solitaria chitarra acustica, soffocata dopo pochi secondi. Le viene però ridata la parola in una parte che lascia presagire il ritorno della rabbia totale; credetemi, non verrete lasciati a bocca asciutta. Il brano è un vero spettacolo, da assaporare più e più volte.
C’è anche il crudele mid-tempo di “Exemplum”, che sembra presentarsi come una strumentale: la parte vocale arriva infatti dopo un minuto e quarantacinque di musica, in cui torna anche la chitarra acustica. Il brano è assolutamente gelido, di un freddo assolutamente norvegese che farà sospirare di malinconia i più fedeli al genere.
Avanza anche il ritorno all’inquietudine di “Of Courage and Deity”, con un pazzo bisbiglio che si trasforma in growl e l’intera canzone stessa sembra sfidare i limiti di violenza possibili con questo cambiamento. Sorprende il cambio di velocità, un ritmo più cadenzato che dura il tempo che serve per tornare a dove si era rimasti prima. Ci sono mille dettagli da scoprire, difficili da descrivere a parole: altro grande brano.
Rimane la sorpresa che genera la calma rabbiosa di “Of Feathers and Doom”, rabbia che ribolle sotto la superficie di un brano che procede a velocità sostenuta, rabbia composta di un riff fatto di pochissime note luciferine. Alle volte, questo lungo ribollire lascia che la collera risalga in superficie, esplodendo come una bolla ma altrettanto velocemente spegnendosi. Una meraviglia.
E quindi non resta che la più grande sorpresa, la lunga strumentale “B Minor”: atmosferica, inquietante, dolciastra nella sua velata malinconia. L’indecisa batteria tiene l’ascoltatore sulle spine, la leggiadra chitarra acustica disegna delicati ghirigori, il basso sembra fungere da linea vocale portante del brano, anche quando ritorna il malefico bisbiglio di qualche brano fa.
Dai Laetitia In Holocaust non posso che aspettarmi ulteriore qualità e splendore; non a caso avevo nominato “Fauci Tra Fauci” uno dei migliori dell’anno scorso. “Heritage” non solo ha superato il fratello maggiore ma anch’esso si è classificato fra i migliori di quest’anno maledetto e martoriato. Una delizia per tutti gli amanti della fiamma nera, da riascoltare fino ad averne troppo…. Cosa che ho seriamente intenzione di fare.