LACITTÀDOLENTE – Salespeople

by Jacopo Silvestri

Per Umberto Boccioni, noto pittore e scultore futurista, la città saliva (riprendendo il celebre dipinto “La città che sale”), cresceva e si espandeva con un’immane irruenza, venendo vista come il preludio di continui progressi. Per questo gruppo mathcore da Milano, la città, invece, è dolente, scabrosa e oscura nella sua contemporanea imponenza e inespressività. La crescita incontrollata ha portato a questo, distese di ammassi di cemento smisurati, vite che si incrociano e un continuo movimento che portano al nulla, al grigiore. Questi sono i LACITTÀDOLENTE, questo è “Salespeople”: caos, dissonanze e attacchi frontali, che ci riportano all’arido vortice delle grandi città.

La rabbia che viene fin da subito sprigionata non consiste in nulla di innovativo, ma è genuina e coinvolgente, e poco importa se al momento la proposta del gruppo deve molto agli stilemi classici del genere, le innovazioni potrebbero arrivare in futuro, al momento la certezza è che le fondamenta sono indubbiamente solide e valide. Lo stile del gruppo nostrano rimanda ripetutamente, specialmente nei primi pezzi, ai Converge di “All We Love We Leave Behind” e realtà simili, con dei riff contorti la cui successione colpisce con sfacciata schiettezza. In apertura troviamo “You Are All”, pezzo prettamente hardcore che offre solo da preambolo ai sempre più numerosi passaggi mathcore che caratterizzeranno i successivi brani del lavoro. Dopo l’esplosione di questo crescendo con “Exploiting” arriva “Profiteering”, e l’atmosfera è diversa, più pesante e sulfurea, ma non per forza iraconda. La seconda metà dell’album infatti inizia con questo pezzo dai marcati midtempo e un approccio più flemmatico, per poi crescere e tornare, tra il finale e la successiva “Sleazy”, all’aggressività originaria dell’ascolto.
In chiusura troviamo la particolare title-track, che dopo i primi due minuti in cui non ci sono particolari variazioni rispetto ai precedenti pezzi sorprende vista l’alternanza con degli spezzoni della celebre “Get Up, Get Out” dei The Weavers. Un apparente controsenso, no? Ma tutto in questo disco è irregolare e irragionevole, come le città, dopotutto, il loro morboso vuoto e i loro ritmi frenetici che ci fanno sentire estraniati dalle nostre stesse vite. Non a caso, il pezzo dei The Weavers appena citato recita: “Get up, get out, you lazy lout, get into your working clothes. Up to your knees in oil and grease, with the grindstone to your nose”, parole che chiaramente fanno riferimento a un lavoro particolarmente gravoso. Ora la scelta di questa particolare incursione risulta più comprensibile.

Il viaggio nella città inespressiva e grigia presentatoci dal gruppo nostrano è una porta sbattuta in faccia che simboleggia la cruda realtà che distrugge un mondo di illusioni. Questa è diventata l’essenza delle città: monotonia, non più progresso, alienazione dal mondo esterno, oltre che da se stessi, non più continue e stimolanti interazioni. Anche dal punto di vista musicale i Nostri non deludono, il panorama hardcore italiano può vantare una nuova realtà molto interessante, con tutte le carte in regola per dire la propria.

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