Undicesimo full length per gli svedesi Evergrey, capitanati dal grande frontman Tom S. Englund, il terzo capitolo della saga “Hymns Of The Broken” iniziata nel 2014 con l’omonimo album e continuata successivamente con “The Storm Within” nel 2016. “The Atlantic” è un concept album che ripropone la formula vincente adottata sia negli ultimi album che nei primissimi lavori, un Progressive Metal alternativo con ritmi e sequenze complesse caratterizzato da riff violenti e cupi, atmosfere malinconiche che travolgono l’ascoltatore immerso in un infinito oceano di emozioni, dall’amore all’odio e dalla gioia al dolore, dalla vita alla morte, che sono anche i temi su cui riflettono i brani.
L’album è un concentrato di brani molto articolati, con un turbinio di assoli di chitarre e tastiere che si intrecciano in maniera progressiva e senza sosta e con una produzione impeccabile, un vero e proprio capolavoro sonoro che mi ha emozionato almeno quanto un album dei Pink Floyd o dei Genesis.
Si parte subito con due brani molto potenti, “A Silent Arc” e “Weightless“, dai riff burrascosi e parti più delicate sostenute dalla voce di Thomas, limpida e orecchiabile (la voglia di cantarle già ai primi ascolti si fa naturalmente sentire). “All I Have” rallenta i ritmi senza togliere però quella vena malinconica quasi sempre presente. “A Secret Atlantis” è ricca di tecnicismi e cambi di tempo tempestosi che fanno in modo che tutti gli strumenti si intreccino in qualcosa di davvero titanico ed emozionante. “The Tidal” è una strumentale dove le tastiere sembrano richiamare le atmosfere futuristiche della colonna sonora di “Blade Runner”, un breve incipit che introduce “End Of Silence“, brano ancora una volta orecchiabile per quanto riguarda il cantato ma appesantito dai maestosi riff di Erik Danhage e Rikard Zander e il potente drumming di Jonas Ekdahl.
“Currents” è il mio brano preferito dell’album, che da una parte presenta un chorus davvero intrigante e dall’altra delle atmosfere che richiamano il meglio della tradizione: l’assolo finale in chiave prog anni ’70 è davvero da pelle d’oca! “Departure” è un brano più soft, ma comunque coinvolgente. “The Beacon” è invece un po’ altalenante, ma riesce a riportare il pathos su alti livelli. Concludiamo con la maestosa “The Ocean“, che raccoglie in sé tutte le caratteristiche dell’album e il vero significato, quello della vita come un oceano in burrasca, fatta di momenti davvero belli e gioiosi, ma anche di momenti crudeli e tempestosi: da un lato l’acqua come fonte di vita, dall’altro qualcosa che può toglierla, una contrapposizione che si percepisce anche a livello sonoro! Un ciclo che si ripete di continuo, da un tunnel emotivo a un altro immediatamente successivo, analogo o meno: forse è per questo che la traccia finisce sfumando lasciando nell’aria un sentore indefinito?
In conclusione, posso affermare che abbiamo di fronte un ottimo disco, consigliato caldamente soprattutto a chi vuol dedicare i propri ascolti a band alternative con un sound tipico e originale, che non pretende di attirare le attenzioni di molti, che rimane piuttosto di nicchia ma che sa emozionare in modo personale come pochi.