I Duality sono una band nata ad Ancona nel lontano 2003 e con all’attivo due EP, uno pubblicato nel 2005 e uno nel 2011, e questo album, uscito quattro anni dopo, quando avevano già deciso di prendere una deviazione dal death metal classico che caratterizza “Dual Aggression Seed“ e “Chaos Introspection“. L’album è composto da otto canzoni di una durata che varia dai 3 minuti e mezzo agli 11 per una durata complessiva di 46:43 minuti. Come accennato prima si tratta di death metal ma con una particolarità: sono presenti importanti influenze di musica classica e jazz, ma con meno virtuosismi o arpeggi particolari. Queste influenze sono presenti anche come spezzoni trapiantati tra due parti death (purtroppo a volte troppo lenti da sembrare noiosi), non solo come intro o outro. Un po’ come un mostro di Frankenstein musicale: a differenza di quello letterario il risultato non è ripugnante, ma è altrettanto mostruoso grazie a cambi di tempo repentini o graduali con pause in cui si passa da parti lente, per lo più strumentali in cui fa capolino il violino, a parti veloci, pesanti e brutali con la batteria scatenata, il basso possente e articolato, le chitarre a dettare riff potenti, a volte melodici ma pochi fronzoli e la voce gracchiante.
Tra le canzoni rilevanti:
- “Azure“: secondo pezzo dell’album. Anche se la prima canzone è più completa, questa riassume cosa ci si deve aspettare dai Duality, il tutto in tre minuti e mezzo abbondanti. Parte pesante ma melodica e ritmata con intermezzo una sezione molto leggera ma troppo “ordinata” per essere jazz. Conclusione ordinaria, avanti liscio come l’olio.
- “Plead for Vulnerability“: sesta canzone. Un pezzo particolarmente vivace in cui tutti i componenti sfornano il meglio di sè, sia nelle parti tranquille sia in quelle veloci, soprattutto il basso senza togliere nulla agli altri strumenti. Sette minuti e mezzo ben articolati tra le due anime del gruppo a dare un’atmosfera da Requiem.
- “Hanged on a Ray of Light“: ultimo pezzo. Conclusione relativamente tranquilla in cui si percepiscono influenze di altri generi metal quali groove e thrash, ma sono le parti lente e le pause che la fanno da padrone, in alcuni punti anche troppo. Per il resto si può dire che sono undici minuti che scorrono meglio di altri pezzi più brevi.
Riassumendo, i vari virtuosismi strumentali e salti di genere vertiginosi fanno sembrare all’inizio di aver mescolato due playlist diverse. Visti i presupposti originali si può dare di meglio, ma il risultato si può considerare accettabile.