A ben sei anni di distanza dall’ultima fatica, i francesi Ataraxie ritornano con “Résignés“. Sei anni sono ben lunghi, ma in questo caso giustificati: dopo l’uscita dalla formazione di Sylvain Esteve (uno dei membri fondatori), la compagine si è arricchita di due nuovi membri, Hugo Gaspar e Julian Payan. Gli Ataraxie quindi sfoggiano un reparto chitarre di ben tre elementi, e con questa nuova formazione si sono imbarcati in un tour europeo e hanno riarrangiato quanto composto fino a questo momento. “Résignés” è quindi il risultato di un lungo processo di riadattamento, che ha portato all’ovvia scrittura di nuovo materiale.
Per chi non conosce gli Ataraxie, il primo consiglio è di munirsi di moltissima pazienza: il loro catalogo, giunto appunto al quarto album, è composto di canzoni veramente al limite del monumentale, complice un’intenzione chiara e ben definita di voler far vivere all’ascoltatore il dolore vero che permea ogni singola composizione. I francesi sono i principali rappresentanti di un extreme doom tinto di funeral, momenti che ricordano il black ma anche il death metal, il tutto unito ad un growl gutturale e lancinante sotto diversi aspetti. Tornando alla durata dei brani, la fortuna è che ognuno di questi è ben assortito di cambiamenti di ritmo e varie soluzioni melodiche per permettere all’ascoltatore di affrontare più o meno tranquillamente quest’impresa. Nonostante questo, la fatica che ne risulta è esattamente l’obiettivo dei Nostri, che unendo le due cose (durata e tormento) raggiungono egregiamente ciò che si sono sempre preposti.
Per quanto riguarda strettamente questo “Résignés” la definizione “niente di nuovo sul fronte occidentale” rappresenta perfettamente il percorso dei Nostri, in linea con quanto composto fino al 2013: non ci sono grandissimi cambiamenti, né nuove strade intraprese. La sperimentazione non riguarda affatto questa band, il cui intento è, appunto, il trasmettere il dolore, la rabbia, l’odio in musica attraverso anche dei testi molto cinici. Per una durata totale di ben ottantatré minuti, composto da solamente quattro canzoni (a voi il calcolo della media), non è per niente facile analizzare canzone per canzone questo inno infernale a un mondo destinato a morire.
L’album si apre con “People Swarming, Evil Ruling“, con la quale se ne vanno i primi ventun minuti d’ascolto. Sin da subito tutti gli stilemi tipici del doom sono rispettati: un brano dalle chitarre pesantissime e lugubri, da un ritmo lento e oltremodo gravoso, impreziosito da note discordanti che donano all’atmosfera una certa magnificenza. Come negli album precedenti, il growl gutturale di Jonathan Thery inquieta e trascina l’ascoltatore nel sudiciume totale. Il basso non rimane nascosto, facendosi sentire in un breve interludio; il riff principale si ripete fino a circa sette minuti, quando delle chitarre solitarie ma non meno lugubri permettono il primo attimo di respiro. Ad accompagnarle, una voce bassa e gutturale, anch’essa filo conduttore rintracciabile in tutte le uscite precedenti. Questa si trasforma in urla lancinanti e dolorose, prima che il ritmo ritorni (se possibile) ancora più lento di prima. Le chitarre piangono, la voce si alterna fra urla di puro tormento e growl, andando a creare un’atmosfera di disperazione tangibile. Verso i dodici minuti le chitarre prendono un ritmo più serrato, e pian piano anche la composizione si fa più “cattiva” e verso il lato più estremo dello spettro: ne risulta infatti un’esplosione in blastbeat reminiscente di un certo blackened death metal, che spezza la tensione e concede anche dello spazio all’headbanging. In soli due minuti però si ritorna al doom puro, quasi funeral, capace di squarciare l’anima. A parte in qualche momento in cui la batteria si concede qualche libertà di movimento, la canzone procede allo stesso modo fino ai diciotto minuti, dove riprende il riff iniziale e così giunge a conclusione, mentre il titolo viene scandito più e più volte fino a volersi quasi rompere le corde vocali.
“Résignés” dura quasi diciotto minuti, di cui si possono segnalare alcune peculiarità per non risultare esageratamente ripetitiva. Dopo il lentissimo incedere iniziale, entro il primo minuto si trasforma in una composizione quasi black metal, rabbiosa e incendiaria; si rallenta e di nuovo si accelera, fino a interrompersi poco dopo il quarto minuto e ritornare al doom ben insaporito di funeral. Dopo l’ottavo minuto si rallenta sempre di più, con le chitarre ridotte a pochi accordi e feedback dell’amplificatore, andando a scomodare del tutto il già accennato funeral doom grazie ad urla sempre più lancinanti e quasi in preda ai più atroci dei dolori. Verso il quattordicesimo minuto, dopo un lungo momento di chitarre serrate, il ritmo sembra volersi riprendere a fatica, aumentando sempre di più fino a ricordare di nuovo il black metal. Il ritmo si fa sempre più serrato così come le urla si fanno sempre più disperate, prima di gettarsi di nuovo nel lato extreme.
I diciannove minuti di “Coronation of the leeches” cominciano con pochissime note funebri. Al terzo minuto si entra nel vivo del brano, di un funeral doom pesante ed asfissiante; in due minuti veniamo trascinati da un velocissimo blastbeat e chitarre compatte in tutt’altra atmosfera, furente e rabbiosa, non meno inquietante. Si torna di nuovo a rallentare, ma l’aggressività rimane in un growl al limite della pazzia. La parte centrale è molto interessante, dato che mescola il doom nella sua lentezza più totale con momenti di violenza pura a volte affidati a delle chitarre caotiche, a volte alla batteria in blastbeat (o anche ad entrambe insieme). Non a caso verso gli undici minuti esplode di nuovo in quello che è praticamente black metal, andando a generare quella che potrebbe essere la canzone più potente dell’album da questo punto di vista. I due generi continuano ad essere mescolati, fino al lentissimo finale coronato di urla lancinanti e bisbigli inquietanti, in un effetto ipnotico e spaventoso. Alle chitarre l’onore di esibirsi in poche note e feedback sonori.
“Les affres du trépas” aspetta l’ascoltatore al varco con i suoi venticinque minuti quasi precisi a concludere l’album. I primi tre minuti sono di doom puro, poi la batteria inizia a scaldare l’atmosfera, portando la composizione verso lidi più extreme e veloci, cosa che dura poco. Il doom regna imperterrito per la maggior parte del brano, aggiungendo chitarre stridenti e urla disperate; altri momenti di calma apparente dove però una chitarra forsennata mantiene ben alto il livello d’ansia che a lungo andare questo brano tende a generare. Un’interruzione al diciottesimo minuto permette un attimo di respiro, affidato ad un basso non meno lento e lugubre. Ad esso si unisce una chitarra malinconica e pochissimi interventi della batteria. Ritorna la voce bassa che recita una parte in francese, trasformandosi man mano nelle grida a cui ormai siamo abituati, finendo con l’esprimere tutta la depressione e il dolore di cui si è capaci. Trascinandosi in questo caos, il brano giunge a conclusione, interrompendosi completamente all’improvviso e lasciando completamente interdetto l’ascoltatore.
Preso da solo, questo “Résignés” è tutto tranne che un pessimo album, e viste le premesse della band non si può nemmeno criticare la scelta di condensare più musica possibile all’interno di un singolo brano. Ogni canzone è un piccolo mondo a sé, con degli immancabili denominatori comuni che omogeneizzano l’intero ascolto; quest’ultimo è quindi molto variegato e presenta ben poche ripetizioni. Come desiderio degli Ataraxie, ascoltarlo nella sua integrità è assolutamente un’impresa, a meno che l’ascoltatore non sia abituato a brani di questa estrema lunghezza. Quindi, può essere consigliato solamente ad amanti ed estimatori del genere; altri potrebbero non capirlo o trovarlo di una noia indicibile. Ciononostante è da considerarsi davvero un buon lavoro; un ascolto interessante e che richiede (cosa rara di questi tempi) molta, molta pazienza.