Incontriamo oggi il settimo album degli ARCHITECTS, quintetto inglese ben consacrato tra i pezzi grossi del metalcore ricco di melodia e ormai imparentato strettamente con un attualissimo djent. Il lavoro è stato anticipato da ben quattro singoli, rilasciati tra marzo e la settimana antecedente all’uscita di All Our Gods Have Abandoned Us.
Per comprendere meglio questo lavoro, è opportuno analizzare il passato più recente della band. Nel 2011, gli Architects hanno dato alla luce la loro quinta fatica, intitolata The Here and Now: l’album costituisce un punto di svolta per il sound della band, che s’impegna in una composizione che lascia alle spalle le radici strettamente hardcore ed abbraccia melodie modern ed atmosfere decisamente più mainstream; ciò ha suscitato reazioni controverse non solo nel pubblico e tra i critici, ma anche all’interno del gruppo stesso, insoddisfatto e scoraggiato riguardo al lavoro svolto (motivo per cui l’album ha ricevuto pochissimo supporto promozionale). Il sesto disco dal titolo Lost Forever // Lost Together, uscito nel 2014, riporta gli Architects a sonorità un po’ più pesanti, ma non fa certo scordare ai Nostri l’amore fatale per le novità sondate.
All Our Gods Have Abandoned Us percorre per tre quarti d’ora abbondanti la strada già battuta dal precedente. Senza possibilità d’appello, si può affermare lo faccia anche piuttosto bene. È palpabile come la band si sia ormai fatta le ossa (ed il culo), approdando ad una dimensione che le confà e che, diciamocela tutta, vende piuttosto bene: l’assetto grafico e la promozione, soprattutto nel magico mondo dell’internet, sono curati e lanciatissimi. Parole e musica sono tutte partorite da Tom Searle, chitarrista e tastierista: i testi, interessanti e non banali, sono impregnati di rabbia, disillusione ed amara consapevolezza di un mondo che gira sovente in senso opposto a chi rincorre un qualche flebile barlume di speranza.
L’esordio del primo brano, Nihilist, è bello tosto e fa sperare in un ritorno alla viulenza originaria, ma presto si dipanano un sottofondo tastieroso djenteggiante (non si fermerà per il resto dell’album, piaccia o meno) e linee vocali aggressive sì, ma inondate da una bella secchiata melodica ed orecchiabile. Plauso necessario va fatto al cantante Sam Carter che, avendolo già ampiamente dimostrato, si muove a proprio agio tra i vari registri e screamma graffiando come pochi. Si prosegue con Deathwish, dagli echi tesseractiani; poco più in là, ci imbattiamo in Downfall e Gone with the Wind, entrambi singoloni e validi esempi di commistione tra riff lanciati, breakdown dispari e larghe sezioni melodiose, che i più maligni potrebbero finemente appellare ‘frociate’. L’elettronica un po’ più spinta e le clean vocals propriamente dette fanno capolino nell’ultima traccia Memento Mori, più lunga, lenta e logorata emotivamente (chicca inutile: prima dell’uscita dell’album, la canzone era riportata erroneamente come ‘Momento Mori’ su diverse piattaforme telematiche).
Un giudizio? L’album è bello, ben fatto e merita senza dubbio una nota positiva. Personalmente, gradivamo di più gli Architects di Hollow Crown, a nostro modestissimo avviso più schietti e sinceri. Una menzione d’onore va ai testi e, soprattutto, all’impegno sociale della band (tutti i componenti sono vegani ed attivi ambientalisti, in particolar modo attraverso Sea Shepherd).
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