Debuttano i norvegesi Warzaw con un nuovo album dai gusti tendenzialmente retrò. Si tratta di un gruppo di base a Trondheim nato nel turbolento 2020, in cui hanno lanciato anche tre singoli integrati nell’album che si andrà a vedere. Il gruppo è composto dal cantante Daniel Rønning, il batterista Mats Sødahl e il chitarrista Håvard Herjuan, entrambi in forza nei Pelagic, e dal chitarrista e bassista Trond Jullumstrø, che milita negli Shotgun Rodeo e aveva collaborato con l’altro chitarrista negli Shadow Hunter (poi Sacrilege) e nel progetto Blizzard.
Si tratta di heavy metal classico, con influenze che si sprecano dai Judas Priest, i primi Iron Maiden, agli Accept: ritmi sostenuti, chitarre distorte in stile hair metal-hard rock, assoli frequenti e orecchiabili e riff semplici ma interessanti.Si tratta di un album tutto sommato breve, con canzoni di una durata omogenea compresa tra i 3 minuti scarsi e i 4 minuti e mezzo abbondanti, per una durata complessiva di circa 37 minuti.
Tra le canzoni rilevanti:
- The Second Banana: secondo pezzo. Pezzo particolarmente interessante, che rappresenta degnamente l’intero album in 3 minuti circa. Dall’assolo delle due chitarre ai riff al ritornello è tutto ben fatto nella sua semplicità, una martellata continua ed esaltante.
- Mida’s Touch: quinto pezzo dell’album. Il pezzo tranquillo non poteva certo mancare, e in questo caso si tratta di una via di mezzo tra rock commerciale anni ’90-2000 e metal. Un pezzo che risalta rispetto agli altri, con groove non male, carico ma leggermente lento rispetto al resto dell’album.
- Burner: sesta canzone. Il pezzo che più si avvicina all’hard rock e all’heavy metal degli anni ’80 come stile, accorgimenti e giri, ma catapultato 40 anni dopo. Assieme al consecutivo Spitfire, più pestato ma sempre sulla stessa linea, potrebbe aiutare a scoprire o riscoprire un genere particolarmente incisivo nella storia della musica
Essendo un album d’esordio non c’è modo di fare paragoni, e rispetto alle band di origine dei vari componenti c’è poco in comune, essendo genere più “moderni” come lo stoner o il thrash metal, sebbene nei Pelagic si sente comunque delle affinità di stile, trasportate intatte ma adattate in maniera accettabile in una sorta di revival dei tempi d’esordio del metal. Se si conoscevano già i gruppi da cui provengono i componenti non si rimarrà delusi, altrimenti può essere un onesto album per i fautori del metal d’annata.