Interessante debutto per i danesi Alkymist, i quali si categorizzano nel genere doom metal. C’è molto di più nella loro produzione oltre a questa semplice definizione: il doom è solo la cornice di una sperimentazione musicale particolare che sembra promettere molto. A breve distanza dal loro primo EP “Element”, l’album omonimo è un viaggio spaventoso ma intrigante nei meandri della mente umana e non solo, lasciando grande spazio all’immaginazione dell’ascoltatore grazie alle atmosfere create.
Il lavoro si caratterizza in particolare per delle ottime parti di batteria ad opera di Philip Kjær Morthorst. Forse per volontà della band, a volte questo strumento suona un po’ “strano”, come se l’equalizzazione non sia stata particolarmente curata durante il missaggio. Sicuramente però ci troviamo di fronte ad un ottimo musicista che ha molto da offrire all’interno di questa band. Le chitarre monumentali di Stefan Krey accompagnano ogni brano che compone “Alkymist”, dando quel giusto tono doom metal che ci si aspetta. In alcune canzoni il cantante Peter Bjørneg sfoggia un growl che però risulta onestamente molto sforzato; per il resto il suo cantato è molto profondo, a volte aggressivo e crudo. Il basso di Kaspar Luke non si nasconde, rendendosi davvero partecipe in alcuni dei brani e regalando quindi un ulteriore tocco di bellezza alla produzione.
Passando all’analisi brano per brano, a parte in un’occasione, tutti i componimenti superano i cinque minuti di durata, arrivando a toccare i dieci minuti. L’album si apre con “Ghost“: un’intro di batteria mette in mostra i problemi sottolineati poco fa, suonando infatti un po’ strana. Chitarre e basso pesanti, vocals profonde ci accompagnano per la durata del brano, con una sezione centrale molto ipnotica e con un assolo di chitarra scarno ma ottimo. “Djinn” ha un’introduzione più melodica che assume pian piano vere caratteristiche doom. Nel bel mezzo del brano l’atmosfera allucinogena e come frutto di un incubo s’impreziosisce di una bellissima parte di batteria. Un lungo urlo del cantante ci riporta a dove eravamo rimasti; un ottimo assolo e belle chitarre accompagnano l’ascoltatore alla chiusura del brano. Nonostante i nove minuti abbondanti di durata, la canzone scorre tranquillamente grazie alla grande varietà che la caratterizza. “Myling” si apre di nuovo con la batteria, stavolta molto lenta, subito seguita da chitarre monolitiche. Voce e chitarra melodica accompagnano una sezione ritmica marmorea prima di una parte puramente doom. Un riff di chiara ispirazione anni ’90 diventa il protagonista del brano, riapparendo nella seconda metà dopo un altro meraviglioso assolo. Il finale è di poche note, inquietante e melodico allo stesso tempo.
Tocca a “Black Egypt II” spezzare l’album con un tappeto di suono che sembra davvero trascinarci più a fondo dentro la nostra anima, alla ricerca di qualcosa di tenebroso e oscuro; “Paradise” comincia quindi subito dopo. Pesante e misteriosa fin dall’inizio, è molto melodica negli intermezzi fra una strofa e l’altra. Accompagnata dal suono della pioggia, la parte centrale unisce chitarra acustica a chitarra elettrica, con una sezione cantata quasi inquietante. Dopo una parte parlata, la canzone ricomincia poi dura e cattiva, riprendendo nel finale il ritornello. “Alkymist” si chiude con “Serpent“, la quale invece ci porta davanti alle onde del mare, e in effetti l’intera canzone sembra voler richiamare Chtulhu dagli abissi. Con un’intro di chitarra lugubre e le bolle d’ossigeno nell’acqua in sottofondo, la canzone inizia lenta e ipnotica. Esplode poi, dimostrando il piccolo difetto della batteria di cui si accennava, alternando momenti molto melodici. Il basso solitario introduce e dà ritmo una bellissima parte al centro della canzone, che presenta inoltre uno splendido assolo di batteria. Questa sezione in particolare aiuta decisamente questa canzone a non risultare paradossalmente la più noiosa: con i suoi quasi undici minuti di durata è praticamente monumentale.
La discesa nei meandri dell’oscurità avviene facilmente nell’arco di questi sei brani, e gli Alkymist sembrano veramente promettere di portare una ventata d’aria fresca al genere del doom metal. Stranamente, la lunghezza dei brani non è affatto pesante, dimostrando un ottimo bilanciamento delle composizioni e della varietà di cui sono composti. Questa non è sicuramente l’ultima volta che si sentirà parlare del quartetto danese, visto questo primo lavoro.