Eccoci alle prese con la recensione più difficile del 2016, non per l’album in questione, ma per il nome della band che l’ha creato: i Metallica. Recensire un disco dei four horsemen, infatti, non è semplice poiché la band americana è sempre riuscita a dividere critica e fan e per un recensore equivale all’attaccarsi un bersaglio sulla schiena. Il fatto che i nostri siano tornati con un full-length dopo 8 anni dal precedente “Death Magnetic” e il fatto che sia un doppio album non aiuta certo a creare un giudizio più o meno unanime sulla band più famosa legata alla musica metal. La recensione tratterà i due dischi in modo separato, non perché non siano parte della stessa opera, ma per praticità. Il primo disco si apre con la titletrack che mette subito in risalto una produzione potente che aiuta moltissimo la resa globale dei pezzi. “Hardwired” in ogni caso è un brano breve e diretto che ci mostra una band in forma e ispirata e che fa decisamente ben sperare. Trovare un pezzo mal riuscito nel primo disco risulta molto difficile perché tutti si dimostrano ben composti e variegati, dalla orecchiabile “Moth Into Flame” passando per “Now That We’re Dead” e i suoi richiami hard rock che la rendono uno dei pezzi migliori dell’album intero. Degna di nota è anche “Halo On Fire“, semi-ballad in pieno stile Metallica che cresce con gli ascolti. Dopo un primo disco su ottimi livelli e che potrebbe incredibilmente conferire all’album il titolo di disco dell’anno (cosa che per il sottoscritto era quotata quanto la vittoria del Leicester dell’anno scorso), si passa al fatidico secondo disco; quello accusato di essere monotono e troppo longevo. La seconda parte di “Hardwired…To Self-Destruct” si apre con “Confusion“, roccioso-mid tempo che inizia come un tributo ai Diamond Head. La canzone in questione diverte, ma non è al livello dei brani del primo disco. In questa seconda parte di album si trovano due dei pezzi preferiti del sottoscritto: “Murder One“, dedicata al compianto Lemmy e che, grazie al suo incedere cadenzato, ricorda moltissimo proprio i pezzi più heavy dei Motörhead, e “Spit Out The Bone“. Quest’ultimo brano è una vera e propria granata piazzata a chiudere il secondo disco che ci riporta indietro ai tempi di “Master Of Puppets” e dove i nostri inseriscono anche un breakdown che ricorda moltissimo quelli proposti da molte band moderne. “Hardwired…To Self-Destruct” non è esente dai difetti, infatti il secondo disco è effettivamente meno riuscito del primo, ma non è nemmeno così brutto e inascoltabile come è stato dipinto da alcuni né tantomeno noioso, nonostante sia effettivamente infarcito di mid-tempos. Gli unici pezzi poco ispirati sono “ManUNkind“, brano che verrà ricordato solamente per il video ai limiti del trash e “Am I Savage?“, pezzo totalmente piatto e scontato. Questo nuovo album dei Metallica paradossalmente non è un disco immediato: cresce infatti con gli ascolti ed è proprio così che lo si può apprezzare completamente, sopratutto il fantomatico secondo disco che a un primo ascolto potrebbe non soddisfare totalmente l’ascoltatore. Dal punto di vista musicale non mi soffermo sulla bravura o meno dei musicisti, di quella se ne discute più o meno dappertutto da anni ed è superfluo farlo anche ora. Bisogna dire che i Metallica con “Hardwired…To Self-Destruct” sono riusciti a creare un disco solido che ha la capacità di stupire per la sua varietà: i nostri infatti passano dal thrash all’heavy, dallo sludge all’hard rock con maestria. Gli otto anni di pausa sono senza dubbio serviti alla band per produrre un album di qualità e sul quale crede fermamente: questa cosa la si può percepire in tutte le tracce, la prestazione dei quattro americani infatti riesce a passare questa sensazione che non si percepiva sul precedente “Death Magnetic” e che giova al disco.
Tirando le somme:
I Metallica hanno fatto il disco perfetto? No.
Hanno fatto il disco dell’anno? No.
Hanno tirato fuori il loro migliore album dal “Black Album“? Sì.
Sono tornati in grande stile sulle scene? Sì.
Il resto sono chiacchiere da bar.