Ci sono parecchi motivi per ritenere “controversa” una band come i Sirenia. Partoriti dalla mente di Morten Veland dopo l’esperienza nei Tristania, i norvegesi hanno dovuto lottare negli anni per ritagliarsi un proprio sound che si distinguesse sia dal passato che dalle band concorrenti. Con “Dim Days of Dolor”, ottavo album in uscita su Napalm Records, i Nostri tentano di livellare una carriera altalenante e cambiano, per la quarta volta, cantante. È infatti Emmanuelle Zoldan, interprete con formazione operistica e già corista del gruppo, a essere promossa dopo l’uscita di Ailyn. L’avvento di una vocalist lirica rappresenta forse la principale novità per la band, poiché sancisce il passaggio da un timbro acuto e sottile (simile a quello che la tradizione attribuisce alle sirene) a uno più corposo e versatile. Con ciò, la speranza è forse quella di riempire quelle lacune che, in mezzo ad arrangiamenti sinfonici sempre più invasivi, impedivano alle precedenti cantanti di essere incisive in ogni contesto.
Già dal primo ascolto si può appurare che la prestazione della Zoldan è convincente e occupa gran parte delle parti cantate, rubando spazio al growl del mastermind. Ciò che si nota da subito, però, è anche una forte somiglianza con lo stile degli Xandria di Sacrificium. Assistiamo infatti alla riproposizione di un trend che ormai stanca l’ascoltatore di symphonic metal, il quale fatica a trovare elementi di interesse nel cantato e viene semplicemente investito da un muro di suono orchestrale che privilegia la potenza all’atmosfera, quest’ultima sempre monotòna. Dopo vent’anni dalla virata sinfonica del metal, l’effetto “wow” dato dal ricorso alle sezioni di archi si è esaurito e i compositori devono arrendersi all’idea che la quaterna string-woodwinds-choir-brass rappresenta un mezzo e non un fine. Purtroppo Veland non sembra averlo capito (colpa che condivide con tantissimi altri gruppi, anche rinomati) e l’unica cosa che ancora lo distingue sono il ricorso a cori gregoriani e ad alcuni suoni synth.
Parlando più propriamente delle tracce, la opener “Goddess of The Sea” irrompe con un coro e un particolarissimo slide effettato di chitarra molto gradevole. Segue il cantato della Zoldan che subito ci fa capire la nuova linea della band. Nel complesso, un pezzo gradevole a cui segue la title track, “Dim Days of Dolor”, il cui intro ricorda vagamente i violini all’ottava alta di “Paradise” dei Within Temptation. La canzone è catchy nel suddetto intro e nel ritornello, la timbrica si alterna tra lirico e non per confezionare una traccia easy-listening. “The 12th Hour” è invece il pezzo estratto per il singolo ed è, a parere di chi scrive, il migliore dell’album. La canzone in questione ha un gran tiro, buona varietà nelle linee vocali ed è ottimamente gestita a livello di arrangiamenti (notare il flauto glaciale che, nelle sue timide apparizioni, contribuisce a creare una bella atmosfera). Chitarre massicce dal ghiotto palm mute aprono poi “Treasure n’ Treasure”, ma bisogna arrivare a “Cloud Nine” per ritrovare un pezzo più degno di nota e meno immediato. Qui l’intro è più succulento del solito, ma subito i toni si calmano fino ad arrivare a un assolo finale veloce e iracondo. In seguito, gli elementi di interesse diventeranno sempre gli stessi: per l’appunto un bell’intro o un bel canto gregoriano contornato da assolo verso la fine del pezzo. Dopo la quinta traccia, tuttavia, l’album comincia a perdere mordente: l’orecchio dell’ascoltatore ha ormai capito l’andamento generale e si trova a recepire controvoglia i brani successivi.
In conclusione, “Dim Days of Dolor” raggiunge a malapena la sufficienza pur vantando un’ottima produzione e una bella performance di Emmanuelle. A livello di arrangiamenti, il difetto è lo stesso degli ultimi Xandria: troppo suono omologato su standard prefissati, troppa pomposità che, poco a poco, altera la percezione fino a consegnarle un unicum indistinto. A livello di composizione, sempre buone le parti di chitarra, ma melodie vocali da ripensare se si vuole emergere in quello che, negli anni, è diventato un mare di mediocrità.