I White Wizzard sono una band californiana nata nel 2007, con all’attivo due EP e tre full-length pubblicati. Per quanto riguarda l’album che verrà recensito qui, il fondatore del gruppo, il bassista Jon Leon, è riuscito a far tornare gli altri membri originari, il cantante Wyatt Anderson e il chitarrista James LaRue, completando la formazione il batterista Dylan Marks. Il genere è un heavy metal con sonorità nello stesso stile degli Iron Maiden, ma in aggiunta si possono riscontrare influenze, tra cui spiccano power, rock anni ’70-’80, con un pizzico di thrash per quanto riguarda alcuni riff con un groove di spessore, ma con una vena melodico-tecnica che prevale. È un album variegato in cui chitarra, basso e voce danno vita a melodie molto orecchiabili senza mai negarsi virtuosismi, specialmente negli assoli; questa ultima creazione dei White Wizzard è lunga poco più di un’ora, che però scorre liscia, leggera e senza intoppi, spartita tra nove pezzi con una durata variabile tra i tre minuti abbondanti e gli undici minuti.
Tra le canzoni rilevanti:
- Storm the Shores: secondo pezzo. Che ci sia l’influenza degli Iron Maiden è innegabile, come lo è il fatto che la linea di basso sia nettamente più dinamica del collega inglese con gli arpeggi. In confronto al pezzo precendente questo è più grintoso e melodico, ma entrambi sono i brani più heavy dell’album.
- The Illuson’s Tears: ultimo pezzo. È una canzone piuttosto tranquilla rispetto alle altre, in cui prevale la componente rock salvo nel finale, che ingrana la marcia con i riff conclusivi e l’assolo tipicamente metal. Degna conclusione di un buon album.
Rispetto agli album precedenti, soprattutto rispetto a “The Devil’s Cut”, c’è molta più grinta e vivacità nei riff. I giri di chitarra e basso sono più curati e tecnici, gli assoli più orecchiabili e frequenti e ci sono molte meno parti lente che invece abbondavano nell’album precedente. Complice anche l’aggiunta della componente rock e power, questo album si stacca un po’ dagli altri, come se fosse lo slancio dopo la rincorsa. Non c’è stato un effettivo ritorno alle origini nonostante il ripristino della formazione originaria, ma almeno si è voluto evitare di aggiungere “cavalcate” di basso troppo palesi e riff al limite del plagio. Uniche pecche un paio di errori di mixaggio, con l’audio che balla in un paio di punti, ma rimane un album molto godibile.