Continua il mio viaggio all’interno dell’ampio panorama post-rock italico (mi sento molto Carlo Massarini mentre lo scrivo… ) con questo omonimo debut album dei Vesta, band al suo esordio nell’universo post-metal/rock per Argonauta Records. Un’etichetta, questa, che vanta numerosi nomi importanti al suo interno, come Nibiru, Rhino e Hell Obelisco, e questo lascia ben sperare fin da subito. La prima cosa che noto è la freschezza dei suoni, mai spenti o calanti, ma anzi decisamente lineari e corposi, merito anche – con tutta probabilità – dell’importante mixaggio di James Plotkin, che già in passato ha lavorato con gruppi del calibro di Pelican e Sumac, giusto per menzionarne un paio. Sette, i brani in tutto. Se vogliamo eccessivamente essere pignoli, forse una manciata di pezzi in più poteva riscaldare ulteriormente l’ambiente.
Ma veniamo a noi.
Vesta, come la dea del focolare domestico, sinonimo di calore e di unione. Tutto il contrario di ciò che ai nostri occhi viene chiamato come Universo. Lo spazio, implicitamente il focus theme dell’album, così sintetico e potenzialmente infinito. Così è la musica dei Vesta.
Dai riff potenti alla Neurosis, passando per i crescendo e le esplosioni melodiche di band come Ef, Mogwai e compagnia bella. Un disco, questo, che non va ascoltato a brani spaiati, ma va assimilato nella sua pienezza ed interezza, addobbato di un’anima centrale importante dall’inizio alla fine del lavoro stesso. C’è ordine e caos allo stesso tempo: le chitarre si rincorrono e si aggrovigliano, eppure talvolta lasciano spazio alla batteria, pur mantenendo sempre un’etica e una compostezza uniche.
C’è logicamente un finale, diviso a metà, in questo album. Finale che, però, non chiude la situazione ma la lascia ben aperta, come a voler dire “non è finita qui“. Complice anche un artwork asciutto ed ermetico, posso serenamente affermare che i Vesta mi hanno lasciato qualcosa. La cosa che più mi stupisce, anche dopo svariati ascolti, è che di preciso, ancora, non so cosa. Bravissimi.