Nati nel 2011 in quel di Roma con l’intento di portare il prog ai primevi fasti, ovvero di voler riportare al concetto iniziale del progressive rock e metal il suono della band. Di fatto la band già alle prime note della prima canzone dimostra di voler andare oltre gli standard “nostrani” e di suonare parzialmente in modo più globale. Con rimandi a band blasonate europee e americane.
Di fatto rimandi sonori a band quali PFM (in salsa metal), DGM, Dream Theater e Symphony X in primisi, ma per fortuna non solo e la cosa ancor più interessante è il fatto che i rimandi a queste band non sono così marcati da non percepire una propria anima ed un proprio modus operandi dei The forgotten prisoners in questo loro album “Circadian descent”.
Ma entriamo più nel dettaglio; tecnicamente le composizioni di “Circadian descent” sono articolate, ma non ritorte su se stesse. Ovviamente sono composizioni complesse, impreziosite da virtuosismi strumentali e vocali, ma mai eccessivi e neppure invasivi.
Le chitarre sono in primo piano, ma come abbiamo già accennato, non sono invasive, infatti troviamo grandi groove del basso che oltre ad essere il legante principe con la batteria crea delel tele personali e delle risoluzioni particolari che aumentano il feeling che l’ascoltatore ha con i brani della band. Batteria precisa, chirurgica si potrebbe dire con accenti e dinamiche molto interessanti. Le tastiere che rievocano a tratti suoni e risoluzioni molto anni 70, ma con un piglio moderno ed un’ariosità non comune. La voce ha dimensioni e registri molto vari e di grosso impatto. La differenza che possiamo riscontrare è dettata dal fatto che ogni strumento ha la sua dimensione e il suo spazio, come del resto la voce, ed è una cosa che spesso abbiamo riscontrato mancante in band molto più stagionate dei The forgotten prisoners.
Interessante e notevole la produzione e la post produzione, ennesima dimostrazione che non vi è per forza di cose un legame indissolubile tra produzione di qualità e contratto discografico. Certo non è impeccabile, perché in così tanti minuti di album qualche cosa scappa, ma essendo esordio possiamo soprassedere.
A livello emozionale è interessante ascoltare il concept che sta dietro a questo album ovvero:”la forma devastante dell’essere umano a ricascare nei propri errori e all’ineluttabilità, questa più legata al nome della band, che alla fine combattiamo una guerra personale”. Inoltre per potervi dare dei riferimenti sonori della band su quali siano le coordinare sonore a cui trovarli vi si potrebbe dire con tranquillità “The incredible tide”, “Ash in the dusk”, “Risen heaven” e “Faith in the dawn”; in ordine assolutamente sparso.
Per concludere: questo esordio è suonato bene, composto bene, ben arrangiato e post prodotto in modo superiore alla media (parlando di autoproduzione), di certo auspichiamo che la band possa in un futuro fare alcuni ritocchi, minimali, per quanto riguarda la post produzione, per permettere ai suoni di uscire in modo maggiore e con più caratterizzazione (il che non si intende la loudness race molto in voga in molti ambienti del metal) ma alcune finezze che in questo lavoro sono mancate.