I The Darkness, assieme ad Airbourne e The Answer, fanno parte di quella triade magica nata negli anni 2000 che sullo stile di AC/DC, Mötley Crüe, Led Zeppelin – e, nel nostro caso, Queen – hanno fondato la propria notorietà. Un successo strepitoso ha segnato il loro esordio con “Permission to Land”, seguito dai tormentoni di “One Way Ticket to Hell… and Back”, per poi conoscere una fase calante a causa del temporaneo abbandono del frontman Justin Hawkins. “Pinewood Smile” è il terzo album pubblicato dopo la reunion del 2011 e verrà rilasciato il 6 ottobre per Cooking Vinyl/Edel. Un disco, lo diciamo subito, che offre poco o nulla sotto l’aspetto dell’innovazione, ma che fa della personalità la punta di diamante con cui penetrare il cuore dei fan. L’offerta dei The Darkness è infatti un puro concentrato di simpatia e grandi doti personali, a partire dai magistrali falsetti di Justin (tra i più acuti in assoluto sulla scena musicale odierna), fino ad arrivare agli ottimi assoli scritti assieme al fratello Daniel Hawkins.
“Pinewood Smile” parte subito col botto proponendoci il singolo “All The Pretty Girls“, una solida traccia dallo spirito ‘Mötley Crüeiano’ su cui si innesta una voce ricchissima di sfumature, ironica, ma sempre con grande stile. A essa segue quella che potrebbe essere la killer-track dell’album: “Buccaneers of Hispaniola“, un hard rock che si tiene su ritmi sostenuti e plettrate veloci per poi esplodere in un turbinante ritornello il cui riff si appesantisce e trascina l’ascoltatore come una locomotiva impazzita. Peccato forse per la chiusura troppo netta, tuttavia il chorus, incantabile per i comuni mortali, è azzeccato in ogni sua parte e riesce nell’intento di farsi ricordare. Virata AC/DC invece per “Solid Gold“, canzone che denuncia il cinismo con cui il mondo del business musicale fagocita i propri artisti, spremendoli fino allo stremo. Il giro ritmico alla base è tra i più banali che si possano conoscere, ma per fortuna la performance di Justin riesce a dare un po’ di sale a quella che sarebbe poco più che una scopiazzatura dei colossi australiani. Discorso molto simile per “Southern Train“, brano dal ritornello corale dove possiamo riconoscere di tutto, dagli Skid Row ai Guns’n’Roses, ma che nonostante le evidenti citazioni cresce a ogni ascolto. Il tiro si alza tuttavia con “Japanese Prisoner of Love” e la sua struttura che impara dai Queen più elaborati: entrata dal sapore heavy metal che invita all’headbanging, strofa più scanzonata, stacco in acustico dove Justin omaggia egregiamente Mercury. I The Darkness si concedono qui allo sperimentalismo ottenendo un risultato gradevole, seppur le variazioni dall’heavy agli altri intermezzi possano non essere così ben amalgamate come si vorrebbe. Il mix stride nella chiusura, e questo sembra essere in realtà un tarlo ricorrente nell’intera tracklist.
La valutazione si complica sulle ultime tracce di “Pinewood Smile”. Se a un primo ascolto infatti molte di esse potrebbero essere considerate dei filler, dopo averle ripetutamente prese in esame se ne deve riconoscere una forza inaspettata. “I Wish I Was in Heaven“, dominata in gran parte dal falsetto, ha un buon tiro e chitarre brillanti, più un ritornello catchy che non guasta; “Happiness” invece è il brano più scanzonato del lotto, una traccia che porta la mente ai tempi delle High Schools e con un chorus arrivabile anche per le corde vocali del pubblico. Chiude la country ballad “Stampede of Love”, una traccia che sulle prime suscita poco se non nullo interesse, finché non ci si ritrova a canticchiarne il motivetto in continuazione, quasi avesse operato a livello subconscio per farsi amare. Anche in questo caso, gli ultimi secondi tendono un po’ a guastare il lavoro, poiché attorno al 03:30 s’inserisce un’isterica improvvisazione il cui senso appare quantomeno discutibile.
Tirando le somme, i The Darkness sono riusciti a sfornare un buon prodotto, forse non ottimo come il precedente “Last of Our Kind” nel quale il quartetto inglese aveva osato qualcosa in più. “Pinewood Smile” cresce con gli ascolti e mostra un’impeccabile cura per tutto quello che concerne la registrazione, ma fa troppo affidamento sulle capacità di Justin Hawkins, un leader senza il quale l’intera tracklist crollerebbe come un castello di carte. “Why Don’’t The Beautiful Cry”, per esempio, abusa di un riff già sentito mille volte, e così anche “All The Pretty Girls” e “Solid Gold”. Mancano inoltre pezzi del calibro di “One Way Ticket”, “I Believe in a Thing Called Love”, “Barbarian”, “Girlfriend” ecc. Nonostante questi difetti, però, la band ci fa dono di una qualità indiscutibile e lascia intravedere come la sua scintilla sia più luminosa rispetto a molti altri, vecchi e nuovi.
Tracklist:
1. All The Pretty Girls
2. Buccaneers Of Hispaniola
3. Solid Gold
4. Southern Trains
5. Why Don’t The Beautiful Cry?
6. Japanese Prisoner Of Love
7. Lay Down With Me, Barbara
8. I Wish I Was In Heaven
9. Happiness
10. Stampede Of Love
Un disco che cresce con gli ascolti, ma non presenta una killer track.