Dopo aver sperimentato l’abbraccio della Terra, dopo essersi spinti fino a Giove e alle sue lune, i Temperance fanno ritorno sul pianeta natale: ma i nostri portabandiera non tornano sulla stessa astronave con la quale sono partiti. Dopo un 2018 e un 2019 (quasi) perennemente in tour, il combo italiano ha attirato l’attenzione della Napalm Records, lasciando cosi la Scarlet Records per accasarsi alla più blasonata label. “Of Jupiter and Moons” aveva segnato un parziale cambio di rotta, abbandonando in parte le tinte progressive che “The Earth Embraces us All” aveva adocchiato e proponendo un melodic symphonic power metal con due nuovi protagonisti alle voci: Alessia Scolletti e Michele Guaitoli. Il risultato era stato ottimo, contando che i due vocalist erano entrati in formazione a stesura dei testi e delle parti vocali già completata: l’attesa per il nuovo album era tanta, data l’intesa raggiunta tra i vari membri (testimoniata dai trascinanti live) e la firma per una nuova etichetta. I nostri Temperance saranno rimasti con la testa tra le nuvole, oppure hanno messo a segno un altro centro, come tutti speriamo?
“Viridian” si presenta dalla tracklist come un album compatto: solo una canzone sopra i 5 minuti, “Nanook”, solo una canzone sotto i 3 minuti e mezzo, con l’intermezzo corale di “Catch Your Dream”. I minutaggi delle varie composizioni non si discostano molto tra di loro. Una scelta che incuriosisce: voglia di andare dritti al punto, poche idee, grande abilità nel condensare in 4 minuti varie idee e stili musicali diversi? Una cosa alla volta.
Se avete ascoltato i singoli da Youtube senza cuffie, direttamente dagli altoparlanti, probabilmente la prima cosa che avete pensato sarà stata: ma dove sono le voci? Ecco: avete fatto la scelta sbagliata. Il mix di Viridian è perfetto per le cuffie, e pure per gli stereo ovviamente: se dagli altoparlanti le voci sembrano sopraffatte e impaludate nel marasma musicale, in cuffia tutti gli strumenti sono al loro posto: precisi, ordinati, chiari, senza sbavature, e le voci si innestano perfettamente su questa armonia. Ma ora parliamo della musica, che è quello che ci interessa, perchè a chi frega di un album brutto/senza idee ma mixato benissimo?
Il disco parte con “Mission Impossible”, singolo di lancio e a prima vista spiazzante: dei Temperance così commerciali e diretti non si erano mai sentiti, quasi Amaranthiani oserei dire. Il singolo fa il suo lavoro egregiamente, perchè il ritornello è dannatamente catchy e rimane in testa, ma sa di già sentito: non di già sentito in casa Temperance, ma di già sentito in generale. Gli intermezzi elettronici sono inseriti molto bene, nonostante siano “pesanti”, il che non arriva a saturare la canzone e gli altri strumenti. Bene, ma i nostri sanno fare di meglio. “I am the Fire” arriva subito per smentire qualsiasi dubbio si sia insinuato nella mente dell’ascoltatore: struttura intricata, Marco, Alessia e Michele si scambiano la voce dividendosi la canzone, ma al tempo stesso non dividendosela. Mi spiego, perchè è una cosa che ricorrerà spesso in Viridian: ognuno dei 3 cantanti ha il suo spazio per esprimere le sue qualità, ma non arriva mai a oscurare gli altri, e la divisione delle parti vocali non è schematica. All’interno della stessa strofa/ritornello si scambiano il microfono più e più volte, dando varie sfumature e soprattutto versatilità alla canzone.
“Start Another Round” è una bomba live: la batteria e la chitarra vanno a tempo, creando un ritmo che vi farà battere il piedino su e giù al primo ascolto e che esplode definitivamente nel ritornello, cantato all’unisono da tutte e 3 le voci. Alessia e la sua carica esplosiva guidano la canzone, che come “The Art Of Believing” su “Of Jupiter And Moons” si candida ad entrare nella top 3 dell’album, e nelle scalette dei concerti.
“My Demons Can’t Sleep” porta il proprio nome su di sé: come un insonne che continua a rigirarsi nel letto, così la canzone continua a rigirarsi su sé stessa, passando da momenti dove chitarra e batteria pestano l’acceleratore a momenti più aperti, dove Michele e Marco possono sfoderare la loro emotività. E Alessia? Beh, la parte finale della canzone è tutta sua, il suo duetto con il pianoforte di sottofondo riporta alla mente i primi Temperance, e decide di imprimere il suo marchio sulla canzone con un acuto sorprendente, prima del ritornello finale. Menzione d’onore per Alfonso Mocerino alla batteria, pulito e continuo come non mai in questa canzone. Ma ora siamo arrivati alla title-track, e l’attenzione dell’ascoltatore diventa massima, specie dopo una prima parte d’album in continuo crescendo. La costruzione della traccia è perfetta: elettronica, chitarra, batteria, basso si incastrano alla perfezione nella intro strumentale, che poi sfocia nella prima strofa. É una traccia tutta in crescendo: come l’intro, pure nelle strofe aumenta il ritmo, chitarra e batteria si fanno sempre più pressanti fino al ritornello da cantare a squarciagola. Tutto bello, bellissimo, peccato solo per la ripetizione del ritornello e per una parte finale un po’ troppo tirata per una title-track: qualche variazione/cambio di tempo nella seconda parte avrebbe reso veramente un brano preparato in maniera eccellente ma che lascia un po’ quel retrogusto amaro in bocca.
Dopo tanta carica, ora è arrivato di lasciare spazio all’emotività: “Let It Beat” vi entrerà nel cuore fin dalla prima nota e vi trascinerà nel suo ritornello da cantare a squarciagola. Traccia dalla struttura non intricata, in cui gli inserti elettronici descrivono un’atmosfera quasi incantata, e che nell’ultima parte vi riserverà brividi, grazie al crescendo emozionante creato dalle 3 voci e dagli inserti elettronici. Una gran bella sorpresa!
I ritmi si sono abbassati, ma il livello qualitativo è rimasto sempre a livelli ottimi: nella successiva “Scent Of Dye” momenti acustici fanno capolino, seguendo la scia di “Let It Beat” per quanto riguarda l’andamento emotivo. Si potrebbe considerare la sorella minore della stessa, se non fosse per gli inserti orchestrali che le donano nuove sfumature.
Ora, le prossime due canzoni sono a parere di chi scrive le migliori dell’album: “The Cult Of Mystery” ha l’atmosfera descritta dal titolo, un alone di oscurità e di “gothic” permea l’intera canzone. Questo fattore è difficilmente riscontrabile in qualsiasi altra canzone della band, una sorta di prima volta per i Temperance, e i risultati sono spaziali, perchè il ritornello è ancora una volta azzeccatissimo (trovarne uno che non funzioni in questo album!), e la sezione musicale non arretra di un centimetro quando c’è da alzare il livello.
“Nanook“: o candidata migliore traccia all-time della band? Elementi etnici, sezioni elettroniche al limite (positivo) della cinematografia, sezioni vocali mai così trascinanti, intermezzo con un coro di bambini, prima della ripresa finale in cui tutti gli elementi vengono portati al loro massimo. Una vera bomba: varia, emozionante, aggressiva, orientaleggiante…. Pensate a un aggettivo e probabilmente lo ritroverete in “Nanook”, la title-track nascosta.
Le ultime canzone degli album sono “Gaia” e “Catch The Dream”, in cui i ritmi si abbassano e a prendersi la scena sono le voci: scelta strana piazzare queste due canzoni alla fine dell’album, personalmente le avrei inserite all’interno della scaletta per darle ancora più varietà. “Catch The Dream” immagino sarà una presenza fissa dei loro live, per entrare ancora più in sintonia con il pubblico, cosa che peraltro ai cinque riesce particolarmente bene.
Siamo arrivati alla fine: i Temperance sono ritornati sulla Terra, facendo esperienza dell’esperienza nello spazio e confezionando un album quadrato, con pochi bassi, un livello ottimo e dei picchi veramente di qualità (“The Cult Of Mystery”, “Nanook”). Forse a qualcuno questa svolta power farà storcere il naso perchè non è il massimo dell’innovazione, ma la verità è che i Temperance si sono lanciati nell’universo Power mantenendo il proprio sound, senza snaturarsi: e non c’è vittoria più grande, che affermarsi verso il futuro tenendo un occhio al passato.