Correva l’anno 1999 quando i Sonata Arctica esordivano con un album destinato a diventare il termine di paragone di tutti i lavori futuri. “Ecliptica“, una pietra miliare del power/symphonic metal, una commistione perfetta di ritmi sostenuti, tecnica e struggente dolcezza che faceva cantare a squarciagola indistintamente uomini e donne, depressi ed estroversi, teenagers e new adults. Insomma, una carriera nata sotto i migliori auspici e che si sarebbe confermata nei tre lavori successivi, vera epoca d’oro della band.
Poi, nel 2007, la magia si distorce. Esce “Unia“, un disco controverso, e dopo di lui “The Days of Grays” (2009) e “Stones Grow Her Name” (2012). I Sonata vogliono sperimentare, distinguersi, mischiare tendenze, ma questo esperimento non piace ai più e non permette nemmeno di portare una vera innovazione. Anzi, i dischi risultano così poco convincenti che è la band stessa ad ammettere che l’obiettivo del successivo “Pariah’s Child” (2014) sarà quello di ritornare alle vecchie sonorità.
Con “The Ninth Hour“, uscito il 7 ottobre su Nuclear Blast, i Nostri puntano tutto sull’emotività e sacrificano il comparto chitarristico in modo evidente. Molte le ballad, (relativamente) poche le frazioni di croma, il tutto contornato da una buona dose di sentimenti atterranti e pessimismo cosmico. Ora, non sono certo le velocità stellari a determininare la qualità di un disco, ma resta pur vero che, senza una musica efficace, il pathos dei testi fatica a penetrare l’anima dell’ascoltatore. In questo senso, “The Ninth Hour” presenta un comparto vocale e ritmico il più delle volte adagiato su tempi e melodie decisamente timidi.
Passando alle canzoni, bisogna saltare i due singoli “Closer To An Animal” e “Life” e arrivare alla quarta traccia “We Are What We Are” per trovare qualcosa di interessante. Qui, tastiere, flauti ed effetti della chitarra ricordano parecchio lo stile dei Nightwish e si concretizzano in un lento in tre quarti dove Kakko offre una prestazione vocale coinvolgente. Il frontman riesce a fare ancora meglio nella successiva “Till Death’s Done Us Apart” dove i ritmi si fanno più spediti e le parole vengono recitate in modo teatrale nei brigde. “Rise A Night” riporta l’ascoltatore nei meandri del power, sebbene il pezzo emerga solo per la lentezza complessiva del disco e per il sapore retrò. Infine, è l’eco di “Reckoning Night“, “White Pearl, Balck Oceans Part II” a destare gli ultimi cenni d’interesse con il più sinfonico degli accompagnamenti presentati, tanto che troviamo ancora una ritmica marcatamente Nightwish al minuto 4:12.
In conclusione, The Ninth Hour vede Kakko in ottima forma e offre alcune novità sul piano degli arrangiamenti, tuttavia le tracce davvero degne di nota si limitano a tre, il che lascia sprofondare il resto del disco in un generale senso di fiacchezza.