Ritornano a distanza di tre anni i Sólstafir con un nuovo album, intitolato “Endless Twilight of Codependent Love“. Si tratta di uno dei gruppi islandesi più famosi, che quest’anno festeggia i 25 anni di attività, un quarto di secolo dove hanno pubblicato 7 full length, 5 EP, 3 split e 4 demo, oltre a subire modesti cambi di formazione. Il genere è principalmente post metal ma con una nota black e doom ritrovabile in gruppi come Katatonia e Primordial, specialmente per la creazione di atmosfere cupe e vagamente tristi, in cui si trovano affinità con gli Agalloch o gli Alcest. Agli inizi erano la loro proposta era più rapida e pestata, dove le influenze black metal erano molto più rilevanti, basta vedere il primo album, “Í blóði og anda” (2002), in cui si percepivano le influenze di gruppi come i Bathory assieme ai sopracitati. In questo album invece non ce n’è traccia, tra una voce in pulito, chitarre con una leggera distorsione, batteria e basso essenziali. Non ci sono neanche più canzoni di 12 minuti come “Náttmál“, traccia presente in “Ótta” (2014), attestandosi dai 4 ai 10 comunque, per una durata complessiva di poco più di un’ora registrata e mixata magistralmente.
Tra i pezzi rilevanti
- “Akkeri“: primo pezzo dell’album. Tipico post metal con alcuni accenni di tremolo e un’atmosfera che è un marchio di fabbrica. Anche se è il pezzo più lungo dell’album scorre liscio nell’olio per unirsi a “Drýsill” in quasi 20 minuti di effetti, chitarre tutto sommato semplici ma efficaci e una voce inconfondibile. Difatti su Spotify risultano tra i pezzi più ascoltati del nuovo album.
- “Dionysus“: quinta canzone. Un pezzo decisamente spinto, in cui si rivedono i primi Sólstafir, quando facevano ancora black metal mescolato con il doom. Un buon inizio pestato per poi rientrare in qualcosa di più morbido ma comunque deciso e melodico, per il resto poco altro da segnalare.
Rispetto alle opere precedenti si può dire che hanno proseguito verso la china adottata negli ultimi lavori. L’evoluzione verso il post rock, che pur si poteva percepire fin dall’inizio nelle parti lente, è avvenuta con “Masterpiece of Bitterness” ma soprattutto con “Köld“, e da lì si è consolidato lo stile già incisivo dall’inizio. Investe molto nelle parti lente, già presenti in “Berdreyminn“, ma in maniera quasi doom. Un album rilassato e pacato, con alcuni splendidi pezzi, ma talvolta fin troppo placido, dando l’impressione che più pezzi siano dei filler: non una colpa, il mondo ne è pieno di album così, ma talvolta manca un certo spunto che distingue un buon pezzo lento da una nenia. Per il resto come album non ha nulla da invidiare a quelli precedenti, a parte forse Köld e “Svartir sandar“.