È opinione abbastanza comune che il terzo album nella discografia di una band sia un po’ la prova del nove, il momento in cui bisogna dimostrare definitivamente la propria maturità artistica. All’orecchio degli ascoltatori questo è sicuramente il caso dei Soen, che con il debutto “Cognitive” si erano attirati addosso molte critiche relative ad un’eccessiva somiglianza con certi mostri sacri della scena progressive metal mondiale e che sono evoluti in meglio con il successivo “Tellurian” uscito nel 2014. Quindi la domanda è: i Soen del 2017 suonano, finalmente, come una realtà a sè stante?
La risposta è ni, ma andiamo con ordine. Martin Lopez e soci, con questo terzo album “Lykaia“, hanno sfornato sicuramente quello che è il loro disco più maturo. La formazione ha di nuovo subito cambiamenti, con l’ingresso del tastierista Lars Åhlund, e la produzione perfetta e cristallina è stata affidata al chitarrista Marcus Jidell.
Come ci ha spiegato lo stesso batterista (durante la nostra intervista), il titolo dell’album si riferisce ad un rito dell’Antica Grecia in cui venivano offerti sacrifici alle divinità, elemento che trova la propria corrispondenza in due frangenti: il primo è la band stessa che, così come il lupo, rappresenta una sorta di entità individuale che tuttavia lavora in gruppo, sempre mantenendosi distaccata dal flusso generale; il secondo è la società attuale, che continua ad esercitare quegli atteggiamenti di oppressione e violenza nei confronti dei più deboli.
Parlando della musica, invece, non siamo di fronte ad un miglioramento dal punto di vista esecutivo (d’altronde si tratta di musicisti dalle indubbie capacità già ben consolidate), ma piuttosto dal punto di vista della varietà e della coesione all’interno dei nove brani proposti: di materiale ce n’è per tutti i gusti, dalle parti più tecniche ed estreme (come nell’opener “Sectarian“) alle parti più rilassate in cui il tocco di Lopez e le atmosfere della band si distendono, facendo sognare l’ascoltatore (è questo il caso della bella ballad “Lucidity“, pubblicata anche come singolo). Il tutto è amalgamato alla perfezione, e le tanto apprezzate influenze latineggianti dell’artista svedese/uruguayano non mancano, come in “Sister” o sul finale di “Jinn“. Il disco scorre abbastanza facilmente nella sua oretta scarsa di durata, per un progressive metal variegato e di ottima fattura.
Il rovescio della medaglia, però, ci mostra una band che sì, ha acquisito sicuramente più sicurezza nei propri mezzi, ma che spesso ricrea (più o meno involontariamente) atmosfere già sentite negli ingombranti lavori del passato di Lopez. Vorrei non doverlo scrivere, specialmente data la bontà del materiale proposto, ma spesso lo spettro degli Opeth fa capolino vuoi nelle melodie strumentali (un esempio è “Stray“), vuoi in quelle vocali di Joel Ekelöf (il cui timbro troppo spesso si avvicina pericolosamente a quello di Mikael Åkerfeldt), tanto che “Lykaia” suona più Opeth di quanto non suonino gli Opeth stessi dal lontano 2005. Ciò, alle orecchie di un fan nostalgico legato al vecchio corso degli svedesi come il sottoscritto, non è necessariamente un problema nel momento in cui lo stesso fan si lascia andare all’ascolto senza rimuginarci troppo: tuttavia è decisamente un fattore limitante, che non intacca la qualità della musica ma che in un certo senso limita le enormi potenzialità della band, ancora non espresse al cento per cento.
Ci troviamo quindi di fronte ad un ottimo lavoro, di cui gli artisti vanno estremamente fieri. Un disco che mostra sicuramente dei miglioramenti ma che in parte conferma gli aspetti negativi presenti sui lavori precedenti. Sicuramente vale la pena ascoltarlo e sicuramente sarà apprezzato dai fan del genere, ma purtroppo viene un po’ limitato nella valutazione a causa di quel piccolo, piccolissimo passo verso la personale consacrazione in quanto a individualità che il combo svedese non è ancora riuscito a compiere del tutto.