Partiamo da un presupposto: smettiamola di indugiare sul passato. Gli anni ‘80 e ‘90 sono tramontati, sono passati 24 anni dal magnum opus “Roots“, l’unico membro rimasto della line up originale è il chitarrista Andreas Kisser, il quale è riuscito a circondarsi di musicisti solidi e a sfornare un album altrettanto solido. “Quadra“, il quindicesimo album in studio dei Sepultura, in uscita il 7 febbraio tramite Nuclear Blast, è basato su un concept interessante e intelligente, spiegato appieno dalle parole dello stesso Kisser:
“Quadra, tra gli altri significati, è una parola portoghese che significa campo di gioco, il che per definizione indica un’area limitata di terreno, con demarcazioni definite, dove si applicano le regole del gioco. Tutti noi proveniamo da diverse Quadras. I Paesi, tutte le nazioni con i propri confini e tradizioni; le culture, le religioni, le leggi, l’educazione e l’insieme delle regole di vita. Le nostre personalità, ciò in cui crediamo, come viviamo, come costruiamo le società e i rapporti, tutto dipende dall’insieme delle regole con cui siamo cresciuti.”
L’album si apre con Isolation: un intro in stile Dimmu Borgir, con suoni misteriosi e archi, lascia spazio ad un riff decisamente Slayeriano. Non si può dire che manchi il groove, al quale i brasiliani di Belo Horizonte ci hanno ormai abituati. La seconda traccia, A Means To No End, è forse la meno interessante al primo ascolto: un Casagrande straripante gioca con il hi-hat, poi la classica combo riffone pesante sulla sesta corda e fry scream, il tutto condito dai sibili dissonanti tipici di Kisser, presenti anche in lavori precedenti. Ma dopo qualche riproduzione, il brano riesce ad esprimersi in tutta la sua maestosità. Con Capital Enslavement si ritorna alle “radici”, dopo un intro tribale con percussioni e suoni ancestrali e un riff onestamente poco entusiasmante, la traccia prosegue sulla falsariga “indigena” ed il risultato è molto positivo. La quinta e sesta traccia sono una doppietta vincente. Ali, è una delle migliori, se non il migliore brano dell’album, in termini di “evoluzione”: cambi di ritmo, riff incisivi e un Derrick Green che mi ricorda un po’ Phil Anselmo; Raging Void è pura ira sotto forma di musica, sicuramente un pezzone da suonare live. Un curioso arpeggio di chitarra acustica apre la seconda metà dell’album, quella più “sperimentale”. Assoli perfettamente architettati, cori classici ed elementi stilistici a dir poco rimarchevoli, a dimostrazione del fatto che i Sepultura, seppur non dimenticandosi delle “Roots”, tentino di portare avanti l’idea embrionale di “Machine Messiah“. L’emotivamente densa Fear, Pain, Chaos, Suffering è arrangiata divinamente: l’inedito duetto con una voce femminile rafforza ancora di più quanto detto prima, e chiude i giochi in grande stile.
Quadra sembra quasi un unico flusso di suono che si ripropone traccia dopo traccia. Batteria impeccabile e precisa: il doppio kick viene usato con mestiere (e non è affatto scontato), e in Ali c’è addirittura un poli-ritmo, raro sia nel thrash che nel nu metal, che fa brillare gli occhi agli amanti dei virtuosismi tecnici. Insomma, il lavoro di Casagrande dietro le pelli è uno dei punti di forza del disco.
Per quanto riguarda il cantato, lo scream di Green è uno di quelli aggressivi-incazzati in pieno stile old-school nu metal, di gran lunga adatto al tema di condanna sociale dell’album, e che forse a molti potrebbe non garbare (ovvero, a chi ha dato la band per morta dopo la dipartita di Max e Igor Cavalera). Complessivamente, Green ha fatto il suo dovere in Quadra, che vi piaccia o meno.
Che Quadra sia la volta buona che i “nuovi” Sepultura smettano di fare soltanto il compitino? Mixing pregevole, temi politicamente schierati (a sinistra), una sottile vena prog (diciamo un capillare) che finalmente trova spazio anche in un gruppo come i Sepultura, che ci ha abituati a schitarrate scellerate e ritmi “stop and go” i quali, non me ne vogliano i Korn, andavano bene solo nel pieno fermento nu metal. Energia e aggressività sono da sempre stati l’albero maestro dei Nostri, e nella spietata ottica di “evolvi o perisci”, questa volta l’estro di Kisser ed altri elementi degni di nota – come cenni orchestrali, armonie, ritmi tribali e intermezzi puliti – rendono l’album un prodotto più “fresco” e godibile, meglio di alcuni lavori passati che, ammetto, mi hanno fatto rimpiangere le chitarre scordate dell’antichissimo “Morbid Visions“.