Ritornano i River of Souls a due anni dall’EP “The Nihilist” con il nuovo disco intitolato “Usurper“. Si tratta di un gruppo olandese nato nel 2014 dal polistrumentista Paul Beltman (un veterano che ha militato in gruppi come Sinister, Infinite Hate e Scrotum e attualmente suona con Grindpad e Weapons to Hunt) assieme al cantante Bart de Greef (World Funeral, Twisted Truth) e il bassista Benjamin Hoogers. Hanno esordito nel 2017 con l’album “The Well of Urd”, per poi pubblicare un EP l’anno seguente. Dopo vari cambi di line up si sono uniti nel 2019 Koen Spierings e Mathijs van de Sande, entrambi militanti nei Context. Per quanto riguarda il genere si tratta di una mistura di heavy, doom e death metal: le atmosfere cupe e i passaggi lenti tipici del doom vengono coadiuvati da riff e intermezzi melodici tipici dell’heavy metal anni ’90-2000, oltre a tratti aggressivi e una voce in growl da death metal. L’album, tra alti e bassi, scorre abbastanza fluido in 8 canzoni di una durata che va dai 3 agli 11 minuti, per una durata complessiva di circa 48 minuti, con registrazioni e un mixaggio accurati per essere autoprodotto.
Tra le canzoni rilevanti:
- “Of Pit and Snare“: seconda canzone. In questo brano si sente particolarmente l’influenza heavy che sovrasta quella death relegata a qualche riff, mentre l’atmosfera che si viene a creare è tipica del doom, molto ben articolata qui rispetto ad altri pezzi.
- “A Spirit’s Weight“: quinto pezzo. Uno dei brani più apprezzati su Spotify, e non a torto: la componente doom e quella heavy coesistono senza screzi, rappresentati rispettivamente dalla chitarra secondaria che tiene un ritmo lento con la batteria, e quella primaria che compone riff melodici e orecchiabili, specialmente nel ritornello. Come suggerisce il nome, è un pezzo che scorre leggero dopo tutto, senza far pesare i 6 minuti e mezzo di cui è composta.
- “The Tightening“: settima canzone dell’album. Si tratta del pezzo più lungo e articolato, sfiorando i 12 minuti, ed è quella che più rappresenta l’album e attualmente la band: intro e intermezzi melodici più o meno distorti innestati su una base ritmica lenta, da doom metal; riff con un buon groove accompagnati dalla voce alterata, tipici del death metal, ma con un tocco personale. Chiudono poi il quadro assoli virtuosi e ritornelli più melodici da heavy metal che spiccano tra i riff. Il tutto rende questo pezzo una tappa obbligata nell’album.
Rispetto all’album d’esordio sono cambiati molto, prediligendo soluzioni più vivaci e in parte più pesanti, ma sono riusciti comunque a mantenere in buona parte lo stile e la componente doom che li contraddistingue. Si può dire che nel loro piccolo hanno fatto un salto di qualità, ottenendo il loro migliore full-lenght finora. Come accennato in precedenza, non sempre il connubio di generi adottato funziona, ma per quanto riguarda i successi si tratta di un gruppo orecchiabile e gestibile, mentre nei fallimenti (pochi, fortunatamente) si hanno pezzi che si perdono in lungaggini che dovrebbero essere cupe e noiose. In compenso, ai primi ascolti questo lavoro potrebbe non piacere, ma, come accade anche per alcuni vini, con il tempo migliora.