Dopo otto album, quasi vent’anni di attività, una corsa frastagliata con molti alti (e quasi altrettanti bassi) i Trivium ritornano nel 2020 con il loro nuovo disco “What the Dead Men Say”. Lasciatemi premettere una cosa: se tre anni fa, con “The Sin and the Sentence”, il quartetto floridiano si era rimesso in carreggiata – dopo dei tentativi a malapena sufficienti – attraverso un lavoro complesso, ma al contempo armonioso e “progressivo”, quest’anno ribadiscono quanto espresso in quello precedente, ma con un approccio più sfacciato, duro e raffinato.
Immagino che nessuno voglia essere ammorbato dalla solita – permettetemi il termine – schifezza post-metalcore trita e ritrita, dato che l’ambiente è già abbastanza infetto, di questi tempi. Stavolta, no. I Trivium, sebbene può essere che io sia leggermente di parte, mi sono piaciuti. Sono il primo ad affermare che “Vengeance Falls” è stato poco convincente, che “Silence in the Snow” ha, ad occhio e croce, quattro tracce passabili, e che non sempre si può essere nel mood “teenager incazzato”. Quello che voglio dire è che i nostri sono cresciuti, hanno imparato dai loro errori (come ormai già ci avevano dimostrato nel 2017) e sembrano consapevoli del mutevole (e ahimè, leggermente mercificato) mondo del metal, rafforzando tutte le caratteristiche che li rendono unici. Roadrunner in questo è una garanzia, almeno nella maggior parte dei casi: il mixaggio rende onore a tutti i componenti del quartetto. Matt Heafy sembra aver prediletto un cantato più pulito e melodico, per dare ancora maggior vigore alle parti in growl. Non spicca come unica voce del coro, dato che il lavoro dei restanti tre è assolutamente degno di nota. Insieme agli storici Paolo Gregoletto (basso) e Corey Beaulieu (chitarra solista) si è ormai costruita un’alchimia organica e consistente. ll contrasto tra il magnitudo della voce di Matt, la spinta costante del basso e l’alta velocità dei riff di chitarra creano una combinazione irresistibile che cattura appieno lo spettro emotivo che i Trivium sono stati capaci di raggiungere attraverso gli anni. Per quanto riguarda la batteria, sull’apporto dell’ormai consolidato Alex Bent non c’è niente da dire se non: magistrale. Finalmente dinamismo, struttura e creatività anche dietro le pelli; Bent conferisce un “esoscheletro“ molto solido sul quale specialmente i pezzi più pesanti possono fare affidamento.
Che sia questa la massima espressione dei Trivium di oggi?
Certo è che in quest’album non sono poche le cose ben riuscite. Dopo un inizio in grande stile con l’energica title-track, non mancano breakdown più che soddisfacenti, come nel brano “Sickness Unto You” (Bent indemoniato), inni da suonare live (“The Defiant“, “Scattering the Ashes“), canzoni più lente (“Bleed Into Me“). Tra le fan-favorite spicca sicuramente “The Defiant“, che parte in pieno stile Trivium con doppia armonia delle chitarre, un Matt che passa dal distorto al pulito con nonchalance e un ritornello che non ci metterà molto a entrarvi nelle meningi. Inoltre, ci hanno dimostrato che non hanno paura di abbracciare brani più lunghi, tra cui la già menzionata “Sickness unto You“, forse la traccia con le vedute più ampie; nuovi giochi ritmici, riff mai banali e ascolto complessivamente scorrevole nonostante la sua pesantezza.
Dei singoli, “Catastrophist” è sicuramente quello più degno di nota (e forse una delle migliori tracce dell’intero lavoro). Arrangiamento perfettamente intelaiato, lavoro alla batteria eccelso, momenti di respiro e di potenza perfettamente bilanciati. Ah, e ovviamente, un ritornello più che “catchy”, in pieno stile Trivium. È un perfetto lavoro di giustapposizione tra equilibri e dinamiche “non scritte” all’interno del loro repertorio, in cui riescono a dare ai fan ció che vogliono senza deludere le aspettative. Nonostante non ci siano salti stilistici drastici da “The Sin and the Sentence” ad oggi, aspettatevi un lavoro ancor più maturo, in cui i nostri cercano di sottolineare la cura al dettaglio, ma senza snaturarsi o “addolcirsi” come molti temevano. Di pezzi da headbanging ce ne sono eccome, caratterizzati perlopiù dai riff fulminanti di Corey, spalleggiati dal basso, il cui tono pare essere più grave e intenso rispetto ai lavori precedenti.
La personalità di Bent brilla specialmente in brani come “The Ones We Leave Behind”, in cui notiamo più di qualche fill interessante con i due tom e la doppia grancassa. I ritmi tribali con il floor Tom mi riportano indietro ai tempi di “Shogun” e a pezzi come “Kiristute Gomen”, che personalmente reputo un capolavoro.
Insomma, con “What the Dead Men Say”, i Trivium hanno toccato punti che forse nessuno si sarebbe mai immaginato anni fa. Forse, è uno dei loro lavori più “spietati” e meno edulcorati ad oggi, ma al contempo malinconico e contemplativo, specie se ci concentriamo sui testi. Creatività poetica e spirito di coesione non possono che dare buoni frutti.