TRIBULATION – Down Below

by Giuseppe Piscopo

La parabola creativa dei Tribulation è senza dubbio una delle più interessanti degli ultimi anni: dagli albori rappresentati da “The Horror”, datato 2009, Johannes Andersson e soci sono giunti attraverso un cammino di indubbio valore al quarto capitolo della loro storia, la summa di un qualcosa di non facile definizione che gli svedesi sono riusciti a padroneggiare alla perfezione. Tutte le influenze che abbiamo già avuto modo di sentire, frammiste a un death metal via via sempre più sfumato, troneggiano definitivamente in questo “Down Below“: un mix di death rock, gothic, dark wave e chi più ne ha più ne metta, dai toni leggermente più morbidi e vellutati rispetto al precedente lavoro.

L’apertura affidata al singolo “The Lament” è il modo perfetto di timbrare il cartellino: misteriosa e ammaliante, ci introduce a un disco che mette a lucido lo stile ormai personalissimo della band svedese, in una serie di composizioni eleganti ed efficaci che spaziano da delicati arpeggi a pezzi molto bass driven, nella migliore tradizione gothic rock anni ’80. Finemente cesellati e ricchi di dettagli, i pezzi si susseguono senza cali di tensione: dall’ottima “Nightbound” all’intensa e pesante “Subterranea“, per chiudere la prima metà del disco con “Purgatorio“, un intermezzo strumentale sognante e delicato, una nenia oscura che ci culla per quasi quattro minuti fino a “Cries of the Underworld“, che ci risveglia senza troppa delicatezza e ci catapulta nella seconda metà dell’album, dal carattere forse un po’ più ambizioso e altisonante rispetto ai pezzi precedenti.

Uno dei punti forti del disco è una cosa non sempre scontata, per quanto importantissima: le canzoni sono belle, non fanno né più né meno di quanto richiesto per fissarsi nella mente e farsi apprezzare, qualità che trova un’analogia con i connazionali Ghost, che fanno capolino in questa sede in qualche parte solista con le tipiche doppie chitarre. Pezzi come “The World“, groovy e coinvolgente, o la bellissima “Lacrimosa“, dall’inizio terremotante e forse punto più elevato dell’album, sono una dimostrazione di forza e consapevolezza dei propri mezzi non da poco, una presa di coscienza in seguito a un percorso evolutivo coerente e personale. Forse giusto l’ultima “Come, Become, to Be” risulta un po’ sottotono nella sua veste più lineare rispetto ai brani appena citati, ma non certo in termini di valore assoluto. Nessuna obiezione per quanto riguarda la produzione, perfetta e in grado di conferire profondità ai brani e dandoci modo di apprezzarne ogni singolo elemento.

Si chiude così quello che è sicuramente il disco più maturo del quartetto di Arvika, fatto evidenziato anche da una durata via via più breve dei loro lavori in studio. Non solo, probabilmente siamo di fronte anche al miglior disco della formazione, che si conferma una delle migliori e più peculiari realtà del panorama odierno.

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