Gli Ignea nascono a Kiev nel 2011 sotto il nome di Parallax. Nel 2013 pubblicano l’EP “Sputnik” e lavorano al singolo “Petrichor“, per poi adottare, nel 2015, il nome attuale e rilasciare il video di “Alga“, brano con riferimenti al popolo dei Tatari di Crimea. In poco più di un anno la band ottiene un buon feedback sui social network ed è pronta a pubblicare il primo full length, “The Sign of Faith“, uscito lo scorso 16 febbraio e che vado oggi a recensire.
Il genere proposto dai Nostri è un oriental metal che vede negli Orphaned Land i più importanti precursori e che si caratterizza per suoni pesanti, massiccio uso del growl e melodie tipicamente mediorientali. Al microfono, la carismatica Helle Bogdanova gestisce sapientemente sia il cantato sporco che il pulito, mentre è Evgeny Zhytnyuk il responsabile degli arrangiamenti dal sapore cinematico. Basso e chitarra sono nelle mani rispettivamente di Xander Kamyshin e Dmitri Vinnichenko, mentre la batteria – di cui ho percepito una grande precisione esecutiva – tocca a Ivan Kholmogorov.
Nelle 10 tracce che compongono “The Sign of Faith” l’aspetto della fede, soprattutto quello distruttivo, emerge a più riprese. Che si parli di terrorismo o della perdita delle proprie credenze, è una spiritualità pragmatica che impregna l’intero songwriting, una riflessione connessa al conflitto sociale che tanto preoccupa il nostro mondo. Non sarà forse un caso allora che il pezzo migliore dell’album sia “Şeytanu Akbar“, opener diretta, coraggiosa, potente. Una condanna al terrorismo islamico costruita su versi veramente d’impatto:
Fascism is obsolete — you claim erasing woes
Raсism is dead — and you destroy the others
You Allah leads to world thriving in peace
But only you are worthy for this peace, I disagree, Şeytanu Akbar!
Del pezzo in questione, tra l’altro, è stato pubblicato un lyric video che si rifà alla pittura metafisica di Salvador Dalì e che è, senza mezzi termini, un vero colpo di genio. Segnalo inoltre i bellissimi riff etnici di “Petrichor” (nome del profumo della pioggia sulla terra asciutta, n.d.r.) e di “Halves Rapture“, quest’ultima forse il pezzo più hardcore del disco. Menzione di merito per “How I Hate The Night” dove Helle ci regala la miglior traccia vocale in pulito: avvolgente, calda e mai stucchevole. Il brano è inoltre quello più elaborato sotto l’aspetto orchestrale e ci può ricordare, giusto per fare un paragone, i Nightwish dell’era Annette. Chiude infine l’album “Leviathan“, cover degli Ultra Sheriff che si discosta in maniera piuttosto brusca dalle tracce precedenti – trattasi di una canzone industrial/elettronica – ma che ho apprezzato veramente tantissimo. Innanzitutto, il testo nichilista e catartico nello stesso tempo mantiene un nesso concettuale col resto del lavoro, ma anche le piccole modifiche negli arrangiamenti rispetto all’originale risultano un valore aggiunto. Le strofe in growl, poi, calzano a pennello.
Per concludere, direi che gli Ignea, con “The Sign of Faith” propongono un’autopubblicazione d’esordio assolutamente notevole e promettente. Le orchestrazioni non sono banali nè invasive, l’esecuzione è precisa e pulita, Helle è un’ottima frontwoman. La promozione è quindi, a mio avviso, pienamente meritata. Devo però giustificare come mai io non dia il massimo dei voti. Il motivo è che, personalmente, avrei voluto più pezzi coinvolgenti come “Şeytanu Akbar”. Tutte le tracce si mantengono a buon livello, ma quelle che impressionano e restano nella testa sono solo una piccola parte (di cui una è una cover). Credo che del lavoro ulteriore possa essere fatto sulle melodie vocali dei ritornelli per renderli un po’ più particolari e, se vogliamo, “catchy”. Ciò sarà molto importante per far sì che Helle, in futuro, non si areni su un range medio-alto di note che rischia, alla lunga, di portare a composizioni ripetitive.
La strada imboccata, comunque, è quella giusta.