Conosco da un bel po’ di tempo questi Mork, norvegesi di provenienza e di fatto (nel senso dello stile musicale che propongono). Mi addentrai nel loro mondo nel 2013 con il loro “Isenbakke”, quasi per caso, scovandolo in un negozietto (forse anche troppo commerciale per il gruppo preso in considerazione) di Bologna. Non li conoscevo ancora, vidi la copertina e dissi “questi fanno per me” e da lì a poco realizzai che avevo pienamente ragione. Se avete allacciato il discorso black metal a tastiere, sinfonie vampiriche e melodie ultra commerciali, siete fuori dai canoni del prodotto di cui vi sto parlando: nonostante gruppi come Dimmu Borgir, Cradle Of Filth e simili portino la loro bandiera Black Metal o almeno la dicitura (discutibile tra l’altro definirlo tale) nell’Olimpo del mercato e del marketing, c’è chi ancora vuol far sentire la vera fumata del Black, che grazie all’underground riesce ancora a rimanere in vita, veritiera e senza compromessi come è e come dovrebbe essere. Impossibile parlare di Black se non si immettono all’interno del genere anche questi Mork.
Tornano nel 2017 questi demoni provenienti dalla fredda Norvegia, che riescono pienamente a soddisfare il palato di un blackster incallito come me e come tanti altri, specialmente se si parla di Black dell’ondata ’90s e a seguire. Già, perché il tempo sembra essersi fermato ascoltando questo disco: siamo nell’era di “Under a Funeral Moon” dei Darkthrone, e chi conosce bene questo album sa bene di cosa sto parlando. I nostri norvegesi riescono a sfornare un album alquanto ricco e completo di ambientazioni quasi dimenticate, riecheggiando sfumature e rievocazioni a Fenriz e soci. Il tutto parte con il primo pezzo “Hednigens Spisse Brodder” che apre in perfetto stile Black, ma che (non mi riguardo nel dirlo) mi ha rievocato molto anche gli Isengard, in particolare il primo pezzo dell’album “Vinterkugge”, ovvero velocità media, cantato del tutto evocativo e riff di chitarra da far alzare i peli sul petto anche al peggior glabro. Il secondo pezzo “Forsteintet I Hat” parte con una melodia a tre note, ripetuta dalla chitarra fino all’arrivo della seconda chitarra di accompagnamento e una batteria alquanto lenta, nonostante il suono e il mood risultino evocativi e al massimo della disperazione. Ad un tratto subiamo uno stop dove la chitarra prende possesso del brano e tutto si ribalta, tramutandosi in qualcosa di veloce e freddo (come da tradizione) con un intreccio melodico agghiacciante e pungente. “Holdere Av Fortert”, è un altro brano in perfetto stile Darkthrone: provate a chiudere gli occhi e a immaginare questo pezzo come la bonus track di “A Blaze In the Northern Sky”, la descrizione rende l’idea. “Eremittens Dal” inizia con le sonorità di un film antico che regala tristezza, disperazione fino a dare il via alla band da un momento all’altro, lasciandoci pienamente attaccati alla sedia senza scampo. Darkthrone, Darkthrone, Dakthrone… niente da aggiungere, il freddo, il gelo, il male, l’inferno, l’inferno più profondo: Black Metal come dovrebbe essere. “Gravol” parte con una campana e un riff dal sapore depressive, con vene più opprimenti, profonde e funerarie. Con “I Hornenesse Bilde” torna il mood glaciale, con un mid tempo da far raggelare le vene riconducibile a “Panzerfaust”. “Et Rike I Nord” è un pezzo ricco di sfumature variegate, da riff di chitarra ferrati à la Burzum di “Hvis Lyset Tar Oss”, contornati da una batteria sempre mid tempo ma che non lascia scampo, e che non risulta soffocante né storpia. Da un momento all’altro tutto riparte in pieno stile “TOO COLD TOO COLD”, ma con una melodia che riporta molto all’ Epic e Ambient Black Metal, quello per intendersi in stile Sojourner, Vinterriket ed Eneferens, contornato da una voce narrante che entra ed esce lasciando che il background della band prenda pieno campo nel brano. Segue “Likfolget”, sempre fredda ma con leggere sfumature differenti, riconducibile ai Throne of Katharsis che, nonostante un cantato più narrato e parlato, non scende di livello rispetto alle altre tracce. Il tempo anche qua risulta non troppo veloce ma il tutto aiuta, vista la vena enormemente evocativa della band. “Morkets Alter” , penultima traccia che regala energia malata, profonda, oscura: una mattonata in pieno viso, ricca di cambi di tempo e melodie che si intersecano appieno fra loro, creando un ambiente freddo, gelido, malato, ma tanto amato dai neri metallari. Cambi di tempo, sferzate black fino a passare a un mid senza fronzoli, come lo sono loro. La conclusiva “I Enden av Tauet” è il perfetto tributo a “In The Shadow Of the Horns” di Fenriz e soci, con cambi di tempo che non lasciano scampo, riff mischiati al Black anche dei Mortuary Drape, quindi non troppo serrati e pesanti come macigni.
Che dire, se non amate il vero black suonato sporco, nudo e crudo, statene lontani, ma per chi lo ama è necessario averlo ed ascoltarlo .