Guess who’s back?! Quattro anni dopo “The Amanuensis” e la definitiva consacrazione come padri del djent e come alfieri del progressive metal del nuovo millennio, i Monuments tornano sulle scene con l’atteso “Phronesis“. Questa volta, però, vi è un po’ di diffidenza nei confronti dei britannici: i singoli rilasciati non hanno convinto al 100% il pubblico, che li ha definiti abbastanza standard e banali. Certo, contando il peso specifico e la caratura dei Monuments è sempre lecito aspettarsi grandi cose da loro, ma il dubbio che la personalità e la creatività siano andate via scemando è più forte che mai Cosa aspettarsi, quindi, da questo nuovo capitolo discografico?
Mettiamo subito in chiaro le cose: i dubbi e i pessimismi generali che si sono diffusi su quest’album sono in gran parte esagerati, ma qualche difetto è presente e lo scopriremo più avanti. Se vogliamo compararlo alla carriera della band, “Phronesis” si pone a metà tra l’esordio seminale di “Gnosis” e la gemma “The Amanuensis”: il che non è necessariamente un male, considerando come quest’ultimo sia uno dei migliori album prog/djent degli ultimi anni (e a parere del sottoscritto del nuovo millennio). Ma andiamo più nel dettaglio.
I Monuments decidono di non sperimentare all’inverosimile, rimanendo piuttosto fedeli alla loro cara formula prog/djent con una spruzzata di metalcore: l’opener “A.W.O.L.” non si perde in barocchismi e dopo un’intro di quaranta secondi ci scaraventa in faccia il djent più pesante e abrasivo che ci si possa aspettare. Nel ritornello Barretto si districa tra il cantato in growl, falsetti e voce in pulito, e proprio in questi ultimi due aspetti risiede la principale novità dell’album, dato che viene utilizzato in misura maggiore e più frequente rispetto ai due predecessori. Cantato in pulito che, però, viene sfruttato principalmente nelle parti più ariose e melodiche, “ammorbidendole” ulteriormente. Se fosse stato sperimentato anche nelle parti più tirate e cattive, avrebbe aggiunto una nuova sfaccettatura a un album omogeneo come livello medio delle canzoni (alto), e purtroppo omogeneo pure sul piano delle variazioni.
Un’omogeneità delle soluzioni che inficia il giudizio di un album suonato benissimo e tecnicamente: Browne e Steele sono e rimarranno sempre dei mostri di bravura e di tecnica, Barretto si dimostra versatile come al solito, la sezione ritmica rinuncia a prendersi il palcoscenico in favore della totale devozione alla canzone e al suo sostentamento. Il problema principale di “Phronesis” non è la tecnica: è la mancata volontà di osare. Le parti più propriamente prog e djent alla lunga non si discostano dai soliti canoni, e alla fine le sezioni più interessanti sono quelle in cui vi è più melodia, in cui vi sono più sfaccettature: “Vanta” ne è l’esempio migliore, uno stupendo connubio di melodia e violenza al servizio della tecnica. A sorpresa, pure “Mirror Image“, uno dei tre singoli estratti , con gli ascolti risulta uno dei momenti più convincenti del platter. Quest’ultima, così come “Hollow King“, dal vivo risulta essere dal vivo una vera e propria bomba a orologeria, pronta a far esplodere il pubblico, come ho avuto modo di provare al Bocciodromo di Vicenza (qui il nostro photoreport).
A lungo andare, le ultime tracce soffrono dell’effetto “già sentito”, lasciandosi ascoltare ma senza aggiungere altro a quello detto in precedenza: questo difetto è dovuto a quella poca sperimentazione di cui si è parlato sopra. Una prestazione di mestiere e di puro manico per i Monuments, ma forse un po’ troppo poco personale: se, dal vivo, la band e le canzoni si confermano e si confermeranno una garanzia, l’ascolto su album perde parte della sua carica esplosiva. Album promosso, ma si poteva e si doveva far di più: stiamo parlando sempre dei Monuments, dopotutto.