A quattro anni di distanza dall’ultimo lavoro in studio, i Meshuggah tornano sulla scena musicale con “The Violent Sleep of Reason“, sicuramente uno dei dischi più attesi di quest’ultimo trimestre del 2016. Il disco, a livello di tematiche, prende spunto dall’opera di Francisco Goya “Il sonno della ragione genera mostri“, mettendoci quindi di fronte al problema dell’indifferenza nei confronti della mole di problemi che affliggono il mondo moderno. Il quintetto svedese di Umeå, per l’ottavo album in studio, decide di fare le cose in modo particolare specialmente se si tiene conto del genere suonato: si tratta infatti di un disco registrato in presa diretta, cosa che si può intuire spesso lungo il disco, sia in piccoli dettagli sparsi che nel sentore generale.
La varietà compositiva presente in “Koloss” si fa sentire anche in queste dieci tracce, che si attestano su una durata che va all’incirca dai 4 ai 7 minuti: permeate di groove e strutture spaccadita inintelligibili ad un primo ascolto, le canzoni scorrono comunque molto facilmente grazie alla maestria tecnica dei Nostri. Parti più tirate, come nella complicata “Nostrum“, bilanciano bene brani più lenti, come ad esempio “By the Ton” e i riff estremamente pesanti della title track, mentre possiamo addirittura apprezzare una sorta di ritornello (termine ovviamente da prendere con le pinze in questo caso) durante la terza traccia “MonstroCity“. La scelta di registrare quest’album dal vivo si è rivelata azzeccata: come detto dal buon Tomas Haake, il quale – neanche a dirlo – ci regala una performance impeccabile, il disco suona più omogeneo, senza quell’alone di asepsi e di precisione fredda e chirurgica tipica dei dischi precedenti. Ovviamente le capacità tecniche dei cinque musicisti fanno sì che l’album risulti estremamente ben costruito e senza la minima sbavatura, ma è quasi commovente sentire i quattro hi-hat prima dell’opener “Clockworks“. La voce di Jens Kidman si fa più calda rispetto ai dischi precedenti e gli strumenti sono stati registrati in maniera leggermente differente in base al mood delle singole canzoni.
La tracklist non presenta dei brani che spiccano evidentemente sugli altri (il che è positivo, dato il livello qualitativo elevato) e uno dei pochissimi punti deboli potrebbe essere un leggero calo di immediatezza e riconoscibilità nei brani centrali, specialmente ai primissimi ascolti.
Ci troviamo quindi di fronte all’ennesimo monolito partorito da queste menti malate e geniali che si concedono al mercato con parecchia parsimonia: probabilmente non si attesta sui livelli dei capolavori della band usciti nella prima decade degli anni duemila, ma sicuramente si tratta di un ottimo disco (pur se in certi punti non immediatissimo) per il quale le differenti valutazioni vengono lasciate esclusivamente al gusto personale.