I Machine Head non sono certo una band che ha bisogno di presentazioni: lungo una carriera quasi trentennale, i californiani hanno pubblicato ben nove full length oltre a svariate altre uscite, l’ultimo dei quali, “Catharsis”, verrà analizzato in questa sede. Come in altri album precedenti, i Nostri non si sono smentiti in quanto a cattiveria: le chitarre sono pompate e distorte, e nel contempo molto vivaci con riff da cui trasuda groove e assoli. Il genere non ha subito evoluzioni pesanti, si tratta di groove metal con influenze nu metal in una miscela orecchiabile. L’album è un continuo ottovolante tra canzoni lente come “Eulogy“, pestate come “Beyond the Pale“, e miste come “Catharsis“. Le registrazioni sono ottimali, la politica sui suoni e sul mixaggio è rimasta pressochè invariata, quindi chitarre in primo piano con la voce senza trascurare però il basso, con la batteria che si conferma fautrice di giri molto articolati. L’album è piuttosto lungo, contiene ben quindici pezzi di una durata variabile tra i quattro minuti abbondanti e i nove minuti scarsi per una durata complessiva di quasi un’ora e un quarto.
Tra le canzoni rilevanti:
- “Triple Beam“: quinta canzone. Qui più che in altri pezzi si intravede la deriva musicale che ha interessato i Machine Head negli ultimi album dopo “Unto the Locust”.
- “Behind a Mask“: decimo pezzo dell’album. Uno dei pezzi più tranquilli dell’intero lavoroe forse anche dell’intera discografia. Come anche “Bastards“, è un pezzo che se lo si ascoltasse alla cieca non si direbbe sia stato composto dallo stesso gruppo che ha pubblicato “Halo“, per citare un esempio. Solo la voce potrebbe dare un indizio. Senz’altro un pezzo inconfondibile e gradevole, con le chitarre in acustico e cori esterni a completare il quadro composto da una voce quasi onnipresente e tranquilla e una batteria notevole.
- “Grind You Down“: tredicesima canzone. È uno dei pezzi che più si avvicina ai Machine Head “classici” in quanto a ritmiche, suoni e stile assieme a “Psychotic“, tra riff articolati a ritmo sostenuto e groove corposo. Salvo la seconda voce in growl e quella pulita, questa canzone non avrebbe stonato troppo in un album più vecchio.
Rispetto agli album precedenti, dopo un andamento altalenante arrivato fino a “The Blackening” e “Unto the Locust”, c’è stato un assestamento della qualità del prodotto e un sensibile aumento e stabilizzazione della componente nu metal che era comunque presenta anche in album precedenti come “Supercharger”, ma in forma minore. Sempre rispetto agli album precedenti la componente più tranquilla si è espansa fino ad avere delle canzoni intere in cui non si preme mai sull’accelleratore, cosa che in questo caso ha comunque funzionato ma solo in parte, dato che un paio di pezzi non convincono affatto. Rimane un album gradevole e valido, soprattutto se considerato in maniera isolata da quelli precedenti.