Otto anni, due EP autoprodotti, numerose vicissitudini, innumerevoli cambi di formazione, la firma con Nuclear Blast: dal 2010 i Letters From The Colony hanno percorso una strada che definire tortuosa sarebbe usare un eufemismo. Otto anni sono un abisso, musicalmente parlando, figurarsi se questi anni separano la nascita della band dal il primo full-length: neppure due EP in questo lungo lasso di tempo possono essere sufficienti a esprimere le miriadi di possibilità che i Letters From The Colony hanno sperimentato dal 2017 ad oggi. Molto probabilmente “Vignette”, l’oggetto di questa recensione, è la forma finale di un album e di idee che hanno cambiato faccia più volte nel tempo, fino alla tanto agognata prima pubblicazione.
Ma cosa aspettarsi da questo esordio? Le premesse ci sono tutte, pure troppe: ed è il minimo, quando vengono presentati come “dei Meshuggah e dei Gojira sapientemente mescolati e personalizzati“. Sappiamo tutti però come mamma Nuclear Blast esageri spesso con le dichiarazioni, e purtroppo anche qui si è sparato troppo in alto.
Ma “Vignette” non è assolutamente un brutto album, anzi: il problema principale è il fatto che sia troppo derivativo. L’influenza delle due band sopracitate è presente in maniera iniqua: a tracce più personali in cui la band dà prova della sua abilità compositiva, si affiancano canzoni imbevute di riff che sembrano presi a piene mani da un album dei più famosi conterranei, o dai progster francesi. Le strutture intricate, gli stop & go, i riff dissonanti possono attirare l’attenzione a primo impatto, ma a lungo andare la sensazione di già sentito si fa strada nelle nostre orecchie fino a diventare preminente. Per nostra (s)fortuna, questi brani sono raggruppati tutti nella prima parte/metà del lavoro, prima del trittico finale che risolleva le sorti di un disco pericolante fino a quel momento. “Erasing Contrast“, “Cataclysm“, “Terminus“: questi tre pezzi(interrotto in parte dalla strumentale “This Creature Will Haunt Us Forever“) riassumono in pieno i problemi presentati poco sopra, al punto che nessuna canzone riesce a catturare l’ascoltatore, che sarà probabilmente portato a skippare dal vortice di ripetitività in cui il disco cade in questa parte. Chiariamo: non sono assolutamente canzoni brutte, ma sono troppo canoniche e senza particolari variazioni. E alla lunga stancano, risultando ridondanti: non bastano alcune accelerazioni e la pur ottima prova del cantante Max Sundqvist a far arrivare alla sufficienza queste tracce. Ma avrà modo di rifarsi, lui e la band.
Ho riservato le note negative per la prima parte della recensione: se siete arrivati fino a qui, buon per voi, perché insieme andremo alla scoperta del meglio che i Letters From The Colony sanno offrirci. “Vignette” si apre con la psichedelica “Galax“: e il titolo non inganna, perché ci trasporta in una dimensione cosmica. A una partenza dove djent e progressive si scambiano i ruoli più e più volte, subentra un intermezzo strumentale che cambia totalmente volto al brano: su un tappeto djent, la chitarra solista disegna atmosfere psichedeliche di pink-floydiana memoria che si diradano in una coda eterea, che piano piano assorbe la carica emotiva della canzone. Una struttura simile la ritroviamo pure in “Glass Palaces“, ma il cambio di ritmo e di atmosfera è più diretto e meno “preparato”: non possiede l’effetto sorpresa dell’opener, ma la perizia tecnica con cui viene eseguita la canzone le fa guadagnare posizione nella classifica.
Se pensate che in questo disco sia la melodia a fare da padrona, “The Final Warning” vi farà cambiare subito idea: la traccia più violenta del disco è una miscela di djent e death metal ad altissimo potenziale esplosivo, la cui miccia viene accesa dal growl poderoso di Sundqvist. La canzone degrada (non di potenza, ovviamente) in passaggi cyber metal (Meshuggah: presenti!) prima di districarsi in passaggi djent tra i più cervellotici dell’album. Gli svedesi sanno pestare egregiamente il piede sull’acceleratore, ma è quando si lasciano andare e decidono di esplorare diversi territori, che si vedono le reali potenzialità della band. E la title track è un piccolo gioiellino di metal: e parlo di metal in generale, perché la band spazia dal progressive al death, non disdegnando influenze jazz dosate qua e là: il tutto sulla base djent su cui la band sperimenta. Fate ascoltare questa traccia a chi ritiene il metal un genere statico e poco innovativo: di sicuro cambierà idea.
Esordio positivo per gli svedesi: seppur accompagnati da aspettative un po’ troppo elevate, considerando come la band sia all’album d’esordio e di quante band si siano lanciate nel fenomeno djent, i Letters From The Colony hanno dimostrato come non si siano limitati a fotocopiare i padri del genere, ma abbiano cercato (con alterne fortune) di sperimentare e di proporre una ricetta originale. E nonostante alcuni ingredienti siano ancora da dosare bene, il risultato è di quelli che fanno ben sperare per il futuro.