Se avessi dovuto parlare dell’ottavo omonimo disco dei Lamb Of God dopo un solo ascolto, non nascondo che questa recensione sarebbe stata una stroncatura brutale in quanto il disco non riusciva a fare breccia e mi faceva sbadigliare, tanto che non sono nemmeno riuscito a finirlo. Fortunatamente non è andata così perché una volta arrivata la copia fisica (che mi ero pentito di aver ordinato a quel punto), i sentimenti per questo nuovo album dei paladini del groove metal made in USA sono decisamente cambiati. “Lamb Of God” è il primo disco senza Chris Adler dietro le pelli, in quanto sostituito in pianta permanente da Art Cruz che si dimostra degno di raccogliere l’eredità di chi l’ha preceduto. Dal punto di vista delle sonorità questa nuova prova in studio della band americana non sposta di una virgola il sound dei Nostri che dai tempi di “Ashes Of The Wake” è diventato una sorta di trademark. L’album è molto più diretto e rabbioso del suo predecessore “VII: Sturm Und Drang” che invece era un album più ragionato (per quanto possa esserlo un disco dei Lamb Of God). Tra i pezzi più riusciti di questo “Lamb Of God” è doveroso citare l’opener “Memento Mori” che con il suo incipit tranquillo alla “Vigil” illude l’ascoltatore fino al momento in cui irrompe violentemente Randy Blythe urlando “Wake up!”. La canzone in questione mette subito sugli scudi il nuovo entrato Art Cruz, che con il suo drumming riesce a dare una marcia in più al pezzo. Altra canzone particolarmente riuscita è “Resurrection Man” che grazie al suo riffing e al suo incedere monolitico ricorda a più riprese i Pantera. Nel disco c’è spazio anche per dell’autocitazionismo con “Checkmate” che nell’incipit si rifà un po’ troppo a “Ghost Walking”. La canzone in questione è comunque gradevole anche se un minimo di identità in più non le avrebbe fatto male. Oltre al lato strumentale di alto livello è doveroso menzionare anche il lavoro di Randy Blythe dietro al microfono che con il suo misto tra scream e growl molto personale riesce a dare personalità ai pezzi interpretando alla perfezione i testi dei brani. Proprio la parte lirica è il valore aggiunto del disco in quanto i testi sono, come da tradizione, diretti e sinceri nella loro critica verso la società. Emblematica in questo senso potrebbe essere “Gears” che altro non è che lo specchio di come si tende a vivere al giorno d’oggi. “Lamb Of God” cresce e coinvolge sempre di più con il passare degli ascolti, già al secondo giro di cd infatti ci si ritroverà a scapocciare e a desiderare di pogare con qualsiasi cosa si muova. È difficile trovare un punto debole a questo disco, forse gli unici passaggi a vuoto sono rappresentati da “Poison Dream” che vede la collaborazione di Jasta degli Hatebreed e la conclusiva “On The Hook” che risulta piatta e poco ispirata.
Tirando le somme si può dire che l’ottavo sigillo dei Lamb Of God permette ai fan di dormire sogni tranquilli nonostante la mancanza di Chris Adler, Art Cruz infatti si è dimostrato un degno sostituto. Il disco mantiene tutti gli elementi tipici del sound della band americana con i relativi pregi e difetti. Fortunatamente le sonorità del gruppo di Richmond sono ancora lontane dall’annoiare e i Nostri possono godersi il successo che stanno riscuotendo, d’altronde i Lamb Of God sono in quella fascia di band dalle quali si sa già cosa aspettarsi e si sa già che difficilmente se ne resterà delusi. La speranza ora è che Randy e soci decidano di passare in Italia con il tour a supporto del disco.