Anima: un concetto così comune, così filosofico e così etereo. Fin dagli albori, questo lato della psiche umana è stato oggetto di studi da ogni sfera dello scibile: scienziati, psicologi, filosofi, chi più ne ha più ne metta. Nonostante ancora oggi non ci sia una definizione univoca per questo termine e rimanga qualcosa di ben più che astratto, prendo in prestito il Treccani, che a proposito dell’anima la definisce “nell’accezione più generica, il principio vitale dell’uomo, di cui costituisce la parte immateriale, origine e centro del pensiero, del sentimento, della volontà, della stessa coscienza morale”. In poche parole, l’anima rispecchia noi come persone, mentre il corpo umano ci rende esseri viventi. Nonostante questa spiegazione l’idea di anima è piuttosto vaga, forse perché è difficile trovare un corrispondente reale con cui confrontarlo: è forse è proprio questo che pensavano Cristina & Co. nella scelta del titolo della loro nuova fatica, e quel “Black” ad accompagnarlo non è casuale, dato che come ha detto Cristina “in questo disco cantiamo le cose scomode che abbiamo dovuto accantonare per apparire belli, felici”. Un nero che non rappresenta però il lato malvagio di noi: in questo caso il nero indica le cose nell’ombra, nascoste, le nostre debolezze, le nostre paure più grandi. Quelle che i Lacuna Coil hanno deciso di riversare in musica.
Ritornando per un momento alla questione etimologica di anima, in senso figurativo la si può intendere come “l’elemento essenziale alla riuscita di una qualsiasi azione/scopo/obiettivo”. Trasportiamo questa definizione nell’ambito musicale: lo scopo di qualsiasi musicista è (si spera!) produrre il miglior album possibile. E invece quante volte ci siamo trovati ad ascoltare album scialbi, piatti, con quel senso di già sentito, fatti tanto per fare: in poche parole, “senz’anima”?
Non è certo questo il caso, perché con questo disco i Lacuna Coil dimostrano come, dopo 20 anni di onorata carriera, si possano ancora produrre dischi di ottimo livello, dischi con un’anima propria. “Black Anima” suona Lacuna Coil senza suonare identico a nessun altro album della band milanese: i nostri portacolori proseguono sulla scia dell’ottimo “Delirium”, senza ricalcarlo ma esplorando strade sconosciute, oltre a tracciarne di nuove. Le sperimentazioni sono più prepotenti di prima, e questo fa pensare: dopo 20 anni sarebbe quasi “normale” che una band si adagiasse su un sound consolidato. Invece i Lacuna, alla soglia del ventennio, si sono reinventati, spogliandosi di tutti i pregiudizi e dando libero sfogo alla sperimentazione e alla creatività, non avendo più nulla da dimostrare: e lo hanno fatto dannatamente bene. Più elettronica, più tinte dark, più cattiveria, più heavy, con la vena gothic e catchy tipica dei Nostri: se volete un riassunto stringato, questo è “Black Anima” in estrema sintesi. Se invece volete saperne di più, la vostra sete di curiosità.
L’intro “Anima Nera” ci cala già in un’atmosfera oscura: il pianoforte e la voce di Cristina sono l’antipasto dell’album, e quella che sembra una comune intro si converte in una litania, dove la voce di Cristina diventa via via più sibilante ripetendo costantemente “Cosa ne rimane della mia anima nera”. “Swords of Angers” è la prima vera traccia dell’album, e in parte spazza via l’oscurità calata con la intro: fin da subito cogliamo un aspetto che sarà centrale nell’economia dell’album, ovvero la centralità del growl di Andrea Ferro, presente come non mai. Ciò è un passo molto importante, perché con questa preziosa aggiunta la coppia Scabbia-Ferro regala duetti ancora più emozionanti, alternandosi senza soffocare l’altro. E senza dubbio in suddetto pezzo i due cantanti chiariscono subito le intenzioni, regalando un brano dall’alto potenziale live, con i suoi cori catchy e che di sicuro faranno breccia nel pubblico. Le due tracce successive portano ancora una volta il marchio di uno dei cantanti, nonostante riescano a dividersi le parti saggiamente, sia in “Reckless” che in “Layers Of Time”. “Reckless” è territorio di caccia di Cristina: le atmosfere pesanti e dark si sposano alla perfezione con la sua voce, malsana, sibilante, capace di passare da acuti come quelli del ritornello a tonalità molto più basse. Pare di trovarsi in un film dell’orrore e quando si pensa di essere stati totalmente stregati dalla camaleontica voce di Cristina, Diego Cavallotti ci libera momentaneamente dall’incantesimo con un assolo veramente ben fatto, veloce e tecnico. Ma è solo questione di un attimo, prima che la voce femminile faccia di nuovo capolino e ci afferri per riportarci nella più tetra oscurità. Menzione d’onore pure per il video ufficiale, che ricrea perfettamente il mood della canzone. Cristina ci ha letteralmente ipnotizzati con le sue trame vocali, ma ora è il turno di Ferro, e non va tanto per il sottile: “Layers Of Time” è probabilmente una delle canzoni più cattive e pesanti che i Lacuna Coil abbiano mai composto. Il growl di Andrea è cattivo come non mai, le chitarre esplorano tonalità e arrangiamenti djent.
Con “Apocalypse” i tempi rallentano, il termometro delle emozioni si alza come non mai: la voce di Cristina è sofferente, carica di pathos sia nelle strofe più sommesse che nei ritornelli da cantare a squarciagola, portavoce di un’apocalisse ormai imminente e impossibile da fermare. Altra menzione d’onore per l’assolo, il secondo dopo “Reckless” e secondo centro per Cavallotti. Si ritorna a pestare sull’acceleratore e l’oscurità ridiscende su di noi con “Now or Never”: le strofe tiratissime sono appannaggio di Ferro e del suo growl incisivo come non mai, mentre Cristina si prende la scena nei ritornelli più distesi e più atmosferici. Ancora una volta, la sezione ritmica insieme alle chitarre riesce a creare un muro sonoro invalicabile dove l’incidere del basso detta i tempi in maniera egregia: in questa miscela heavy dark, si aggiungono orchestrazioni sinistre e ossessive ad accrescere la sensazione di oppressione. Segnatevi questo, perché lo ritroveremo più avanti nel disco. “Under The Surface” prosegue sulla scia della precedente, ma l’ottovolante sonoro dei Lacuna Coil è definitivamente pronto a decollare. Momenti più tirati si alternano a sprazzi di cavalcate sonore, Cristina Scabbia e Andrea Ferro si scambiano il microfono varie volte e duettano insieme in altre occasioni senza forzare nulla, in un incidere emozionante che rende questa canzone un highlight del disco grazie alla varietà vocale. “Veneficium” e i suoi 6 minuti abbondanti sono il manifesto dei nuovi Lacuna Coil: il titolo in latino rivela l’anima gothic della canzone, e in parte ci riporta ai fasti degli anni passati, ma niente autocitazionismo. Cristina osa altissimo con la sua voce, e lo fa con la consueta maestria e padronanza dei mezzi, Ferro si divide tra un pulito sofferente, quasi dimesso, ma molto emotivo e il solido growl che da inizio disco sta esibendo. Mai come in questa canzone l’atmosfera è la vera protagonista, tutti i membri della band, ogni singolo strumento è al servizio di una mini suite che è una sorta di compendio tra passato presente e futuro, in cui l’anima catchy e l’anima oscura si amalgamano tra di loro, fondendosi. L’assolo verso metà canzone alza ancora di più l’asticella dell’emozione e della tecnica, per gli ultimi 2 minuti da vivere tutti d’un fiato, dove Cristina ci canta la sua sofferenza e il suo essere confuso, persa, senza una direzione. Quando a metà disco molti pensano che si potrebbe tirare il fiato, i Lacuna piazzano una doppietta eccezionale, che alza le aspettative a dismisura per il trittico finale. E forse di questo risente “The End Is All I Can See”, la traccia più sperimentale del disco per distacco: gli inserti elettronici non si contano, l’atmosfera si fa più rarefatta e i tempi si rallentano. Forse anche troppo: chiariamoci, non si sta parlando di una brutta canzone, anzi, perché non si tratta di storpiature elettroniche buttate lì a caso. La base elettronica disegna la canzone lungo le strofe e i ritornelli, ma è la struttura intorno ad apparire un po’ troppo debole: le chitarre sembrano distanti e la batteria troppo statica. Probabilmente tutte scelte dovute al favorire l’impatto elettronico, ma a mio parere un’ossatura più heavy e pesante come per le altre canzoni avrebbe dato ancora più volume a un sound già ricco di suo. Traccia che probabilmente si deve assimilare e ascoltare per bene, data la natura sperimentale.
Bene, ora scaldate l’ugola, perché “Save Me” è da cantare dall’inizio alla fine: anticipo già come questa canzone in sede live renderà ancora di più che su disco, perché i cori e il ritornello sono semplicemente devastanti emotivamente. La voce di Cristina vi strapperà dal cuore tutti i vostri pensieri negativi, mentre la cavalcata sonora composta da chitarre e sezione ritmica vi farà saltare e headbangare a tempo, in un crescendo emotivo arricchito dall’ennesimo eccellente assolo di casa Cavallotti. Apparentemente semplice nella sua struttura, ma tremendamente efficace.
Siamo arrivati alla traccia finale, la title-track: una vera sorpresa, in tutti i sensi. Innanzitutto per il minutaggio, 3 minuti e 22 secondi: inusuale per la traccia che dà il nome dell’album: ma ancora più sorprendente è la deflagrazione musicale a cui si assiste. Per i primi 56 secondi si ha la sensazione di trovarsi di fronte a un outro: un pianoforte, Cristina e la sua voce sommessa, la sensazione che qualcosa ci stia per travolgere, prima che Ferro e il suo growl entrino in scena, dando il via al delirio sonoro. L’atmosfera è oppressiva, malsana, carica di oscurità e di malignità, come se da un momento all’altro il male dovesse deflagrare. Cosa che avviene dopo il break centrale: è ancora Ferro a dare il via alle danze, prima che Cristina e la sua voce filtrata e delirante ci trasportino in un set dell’orrore, in una stanza dove è stata appena evocata una presenza maligna. Magistrale il basso in questa canzone, perfetto per precisione e per aggiungere quell’alone di pesantezza e di malignità che rende questa canzone una piccola gemma.
Se siete arrivati fino a qua, grazie: probabilmente questa recensione si è dilungata un po’ troppo, ma era doveroso farlo per un album che testimonia come i Lacuna Coil siano più vivi che mai, più in palla che mai, più vogliosi che mai di mettersi in gioco. Una band perfettamente collaudata, dove ognuno ha il suo ruolo senza strafare e senza oscurare gli altri: ovvio che Cristina riesca a rubare la scena più di altri e degli altri (e non c’è bisogno di spiegare perché), ma voglio sottolineare ancora una volta quanto Ferro sia centrale nell’economia dell’album e di come il suo growl sia in costante miglioramento, alla faccia delle critiche. Se l’album è più pesante, è merito di Diego Cavallotti e delle sue trame di chitarra, capaci di spaziare da momenti al limite del djent come in “Layers Of Time”, ad altri tipicamente alternative metal fino a quelli gotici di “Veneficium”, cosa da non sottovalutare dato che Diego è entrato nel 2016 nella band e quindi non ha vissuto i trascorsi della band. Mentre il nuovo entrato della band, il batterista Richard Meiz, offre una prestazione solida, senza picchi e senza errori madornali: sono sicuro che una volta assorbito il passaggio da una band death metal come lo erano i Genus Ordinis Dei, potrà dare il suo contributo totale alla band. Ma forse il vero protagonista è il mastermind Marco Coti Zolati, autore di buona parte degli arrangiamenti e di una eccellente prova al basso: il suo strumento non sta in disparte, sullo sfondo, ma anzi ha lo stesso peso specifico della chitarra (non è un caso sentire in molti canzoni un basso quasi onnipresente ma non invadente).
9 album, 9 diverse sfumature di Lacuna Coil: ma se la prossima sfumatura, la decima, seguirà la scia e le tonalità dei suoi predecessori, potrebbe arrivare ad offuscare tutte le altre. La Seconda Giovinezza dei Lacuna Coil.