Sono passati due anni e spicci dallo scioglimento degli Agalloch, una band il cui impatto musicale ed emotivo sulle vite di moltissimi fan è stato decisamente sopra la media. Da allora, le due fazioni composte rispettivamente dal fondatore John Haughm e dal resto della band, con Don Anderson, Jason Walton e Aesop Dekker hanno proseguito su strade diverse: se il primo ha già dato con i Pillorian, mantenendo comunque a grandi linee lo spirito del gruppo Portland, i secondi hanno unito le forze con il cantante e chitarrista AJ Gregory (ex Giant Squid) nei Khôrada, entità che ha generato non poca curiosità fin dal suo annuncio.
Se anche in questo caso vi aspettate qualcosa di affine a quanto fatto negli ultimi vent’anni dai tre strumentisti, vi sbagliate: “Salt” prende una direzione diversa e nettissima, un’ora di musica cangiante e ricca di influenze. Poche concessioni vengono fatte all’elefante nella stanza che risponde al nome di Agalloch, ma per il resto quest’elefante viene scacciato via con sei poderose spallate da un disco anch’esso pachidermico e pesante: per forza di cose si ritrovano alcuni richiami al passato, perlopiù in termini di suoni e arrangiamenti di chitarra, ma per il resto è un lavoro che destreggia autonomamente su territori post metal/rock, richiamando nomi come Neurosis e affini ma con qualche strizzatina d’occhio a elementi più inusuali. Basti prendere ad esempio “Seasons Of Salt“, secondo brano del lotto, violento e monolitico che però si apre a una galoppata quasi maideniana a metà brano; oppure alla penultima “Wave State“, con i suoi ritmi terzinati, i fiati e un finale sperimentale che ben si collega alla conclusiva “Ossify“, primo singolo estratto che si apre con dei sintetizzatori à la Blade Runner e che risulta essere il brano più easy listening del disco.
L’eccelso comparto strumentale, solido, stratificato e ben strutturato, fa da perfetto contraltare alla voce di Gregory, versatile e camaleontico nel declamare ora in maniera rabbiosa, ora quasi come una nenia i testi fortemente ambientalisti e critici nei confronti della società: avidità, inquinamento e un futuro post-apocalittico si intrecciano a doppio filo con l’urgenza della musica andando a volte in controtendenza con essa, ad esempio nella seconda metà di “Edeste“, in cui immagini di catastrofi naturali si accompagnano a diversi strati di chitarre sovrapposte.
Unica eccezione in termini di testo e stile, e paradossalmente uno dei momenti più d’impatto del lavoro con i suoi due minuti scarsi di durata, è la dolce e delicata “Augustus“, una sorta di inno all’amore di due genitori per un bambino che, a giudicare dalle parole, non è riuscito a vedere la luce.
A conti fatti, “Salt” sembra essere il frutto di una gestazione difficile e i Khôrada un progetto scaturito da un evento che sembra non aver avuto una conclusione definitiva. Se queste supposizioni dovessero rivelarsi esatte, non ci resta che riconoscere la classe (assolutamente indiscussa) con la quale i quattro ragazzi sono riusciti a convogliare il tutto in un lavoro ricco di elementi e sfumature da cogliere man mano lungo diversi ascolti.