Non è mai facile recensire gruppi come i Katatonia, a causa delle aspettative che band del genere creano al di là dei gusti personali. La formazione svedese si presenta con questo The Fall of Hearts in versione rimaneggiata, con il debutto in studio del batterista Daniel Moilanen e del chitarrista Roger Öjersson, quest’ultimo entrato nella band in tempo per registrare gli assoli, in attesa di vederlo impegnato anche in fase compositiva.
Alla luce degli ultimi esperimenti della band (Dethroned and Uncrowned ed il live Sanctitude) e delle dichiarazioni della stessa, la definizione che viene in mente ascoltando quest’ultima fatica è di evoluzione prevedibile, da non intendersi necessariamente in senso negativo: la musica è infatti sempre più spostata verso il lato più progressivo della band, che comunque riesce a non snaturare le composizioni rendendo immediato il collegamento delle stesse con il gruppo svedese.
L’album si apre in maniera un po’ debole, ma ben presto ci ritroviamo di fronte a delle classiche composizioni del quintetto svedese. La prima metà dell’album mostra una direzione musicale con cui i Nostri pare non vogliano prendere molti rischi, senza particolari accelerazioni o complessità stilistiche: un esempio di ciò è Serein, traccia più diretta del lotto e probabilmente anche la più banale. Da menzionare in positivo il primo singolo Old Heart Falls, che presenta un ritornello molto melodico, ma azzeccato. Le sonorità si inaspriscono e le strutture diventano un po’ più variegate sulla terza traccia rilasciata in anteprima, Serac. Moilanen in questo brano inizia a mostrare il suo estro, e si dà da fare in generale nella seconda metà del disco, decisamente più pesante rispetto alla prima con tracce degne di nota come The Night Subscriber. Sono presenti comunque brani più calmi e particolari come la semplice Shifts, che si basa su una melodia di chitarra quasi ipnotica. Jonas Renkse è autore di una prova senza macchie, coerentemente con ciò a cui ci ha abituati negli ultimi album in studio. L’artwork, come al solito opera di Travis Smith, è impeccabile e ben si adatta al mood della musica.
Dopo vari ascolti ed un’occhiata al minutaggio delle tracce, viene fuori quello che probabilmente è il vero punto debole dell’album: per la prima volta da 15 anni, infatti, le tracce superano i cinque minuti di durata (metà di esse vanno dai 5 ai 7 minuti e mezzo), elemento che, abbinato allo stile più pacato di alcune sezioni, potrebbe rendere un po’ prolisso il tutto.
Siamo quindi al cospetto di un album che è lontano dai fasti di The Great Cold Distance (comprensibile, per una band in costante evoluzione stilistica) e che probabilmente non verrà ricordato come uno dei migliori della produzione del combo svedese; tuttavia, si tratta di un album valido, che sicuramente necessita di svariati ascolti per essere apprezzato ed in cui la band riesce comunque ad amalgamare con classe le sezioni più dolci e quelle più pesanti. Per il resto, l’apprezzamento di quest’opera è legata più che mai al gusto personale del singolo ascoltatore.