Un disco che nasce da un’idea chiara: parlare di un’ipotetica immagine futura di Londra, città in cui gli edifici di vetro e cemento prendono vita per controllare le migliaia di persone che lavorano e vivono al loro interno. Una città in cui, con il giusto punto di vista, si può vedere l’oscurità lentamente prendere il sopravvento sulla luce.
Le idee dietro a “London Orbital” sono chiare, e pur essendo concentrate sulla capitale inglese, si possono estendere senza problemi a molti contesti urbani in cui ci ritroviamo ogni giorno come dei prigionieri. Quante volte ci è capitato di vagare per una città e di sentirci soffocati dagli enormi ammassi di cemento attorno a noi, estranei da tutte le persone che incrociamo e insensibili alla miriade di suoni che riempiono l’aria? Questo lavoro, secondo album in casa Kassad, esprime quella sensazione di smarrimento e di inadeguatezza che si percepisce.
Sulla formazione sappiamo solo la provenienza dall’isola britannica, nessuna informazione riguardo ai membri, nemmeno degli acronimi. Quest’incognita ha la chiara volontà di non deviare l’attenzione dell’ascoltatore da ciò che dovrebbe essere l’unico oggetto che si va ad analizzare di un disco: la musica. Per legarsi al concept presentato in apertura, la proposta della band si identifica in un black metal dalle marcate influenze post, che non si tirano indietro a delle allusioni puramente post-rock.
L’opener “The Boundary” apre le danze generando sensazioni sognanti, che vengono velocemente spazzate via da una scarica di rabbia che ci fa entrare nel vivo del disco. Nelle varie composizioni, anche nei momenti più vigorosi, regna costantemente almeno un accenno alla melodia, con i ritmi che raramente deviano verso derive puramente black metal, mantenendosi cadenzati e lasciando spazio alle parti in pulito. Se già il pensiero dietro questa produzione è di tutto rispetto, anche la musica fa ottima impressione, mostrandosi come un connubio tra due generi che spesso vengono usati in contemporanea, ma mantenendo una sensazione di personalità.
“The Concrete” si può descrivere come il pezzo più aggressivo del complesso, ed è anche quello che fa immedesimare maggiormente nello scenario creato, in cui regna la desolazione. Il contrasto con l’intermezzo etereo presente dopo la metà è rilevante, e qui si può percepire come anche nei momenti più tranquilli incombano costantemente sensazioni inquiete.
Gli ultimi tre brani del disco coincidono anche con le canzoni più lunghe, e possiamo constatare un progressivo allontanamento dalle scelte più aggressive del precedente pezzo. Lentamente, i musicisti (o il musicista?) che si celano dietro a questo lavoro ci accompagnano in uno scenario perennemente angosciante, ma a tratti più scialbo e meno opprimente. Certo, non mancano le sferzate violente e “The Hopeless” ne è l’esempio, ma le decisioni sono chiare, e di black metal hanno ben poco in questo settore della produzione. Non a caso, in chiusura troviamo “The Hollow”, brano che fa prevalere il lato post-rock del disco, avvicinandosi particolarmente all’ambient.
“London Orbital” è un disco che persuade, e con le sue scelte semplici ma mirate permette alla band inglese di fare un’ottima impressione e di presentarsi come una scoperta piacevole e dal potenziale non indifferente. Le sensazioni che si vogliono paragonare a quelle che fanno sentire oppressi, quando inseriti in un contesto cittadino fitto e imponente, si possono percepire con semplicità, e la facilità con cui si può toccare l’idea su cui si basa questo album è sicuramente un suo valore aggiunto. Inoltre, anche dal punto di vista strettamente musicale la proposta rimane qualitativamente valida, non si disperde nell’anonimato trovando troppe similarità con altre realtà dello stesso genere, bensì offre una visione del post-black metal molto curiosa, che potrebbe sicuramente fare al caso agli ascoltatori di questo stile, e non solo.