“Traktat” nasce da un accumulo di malessere che stava diventando sempre più ingestibile. Come sostiene J.J., mente dietro questo progetto, già conosciuto per la sua attività negli Harakiri for the Sky come cantante, quando ha scritto l’album stava passando un periodo particolarmente negativo che l’ha portato a sfogare tutte le sue sensazioni nelle canzoni che compongono il suo settimo lavoro in studio. Partendo da questo presupposto, si capisce come il disco sia particolarmente personale, e questo aspetto durante l’ascolto si farà notare, donando più fascino alla produzione. In passato, Karg si è già fatto conoscere per lavori di tutto rispetto nell’ambito del black metal più atmosferico dove si fanno notare anche influenze post, e questa nuova fatica ne conferma il valore, non cambiando praticamente nulla della formula usata in altre circostanze, la quale si dimostra nuovamente efficace.
L’opener “Irgendjemand Wartet Immer” ci presenta il disco al meglio, ponendoci davanti a un’ondata di sensazioni. Da una parte ci carezza con le sue parti più melodiche ed eteree, che sanno anche nascondere una natura malinconica, mentre il cantato straziante e i riff più vicini al black metal fanno strada a uno scenario che si avvicina a rappresentare tutto ciò che regnava nella mente del mastermind nei momenti in cui ha composto l’album. Il contesto da cui son nate le idee relative a questo lavoro lo hanno reso un disco che denota anche una non indifferente natura introspettiva, un valore aggiunto che maschera quello che è un aspetto che si può percepire con molta frequenza nel genere: la mancanza di aspetti che caratterizzino le composizioni, in questo caso rispetto al proprio passato, e non in confronto ad altre formazioni. Questo passo in avanti, che evidenzia un miglioramento anche rispetto al precedente “Dornenvögel”, si può considerare la manifestazione del potenziale di questo progetto.
Dopo la partenza in cui il muro fondato dalla marcata vicinanza al black metal è più marcato, la controparte post-rock si fa sentire con autorità in “Stolperkenotaphe”, grazie anche al violino di Klara Bachmair (Firtan) e al settore in cui appare la voce in parlato di Purch (Instant Karma). Non è da meno “Alaska”, dove sale in cattedra la costante presenza di una chitarra in pulito, utile a donare melodia. Questo aspetto si può notare nella totalità delle canzoni, essendo essenziale per il sound del progetto, ma in questo brano è ineccepibile.
La seguente “Abgrunddialektik”, con i suoi ritmi serrati, espone delle caratteristiche completamente opposte a quelle di cui abbiamo appena parlato, dimostrandosi come il pezzo che richiama maggiormente al black metal puro, senza discostarsi troppo dalla natura di questo disco e dalle varie influenze più atmosferiche che trovano comunque parecchio spazio.
Nella seconda metà, le cose non cambiano essenzialmente. Troviamo pezzi conformi a quelli precedenti, che denotano solo una durata mediamente minore, mai superiore agli otto minuti, mentre inizialmente i dieci minuti sono stati superati in diversi casi. L’aspetto positivo di questa conclusione è come il livello rimanga inalterato, senza andare ad annoiare progressivamente. Poca originalità, sì, ma scelte che mettono in evidenza delle buone capacità compositive.
Ormai, da Karg non ci si possono aspettare alterazioni ragguardevoli della proposta, in quanto al suo settimo album ci ha abituati alle caratteristiche della sua musica che, vuoi per la sua voce particolare o per il dualismo continuo tra le chitarre in pulito e la controparte distorta, non trova eccessiva similarità in altri progetti. “Traktat” è la riprova di come questa one-man band proponga un’interessante visione del post-black metal, che non riscriverà la storia del genere, ma sicuramente è in grado di coinvolgere e far immedesimare l’ascoltatore nei suoi scenari.