In un periodo in cui la religione sta attraversando un periodo complicatissimo e problematico, tra scandali interni, incapacità di capire come raggiungere le nuove generazioni e una sempre più crescente crisi delle istituzioni patriarcali, serve una figura capace di ritornare al centro della scena, per sfoggiare di nuovo il fascino e l’importanza dei tempi perduti: e il prete di Giuda è pronto per fare il suo ritorno, ancora una volta. Pure lui ultimamente ha risentito di questo periodo difficile, le sue ultime encicliche (“Redeemers of Souls”, “Nostradamus”, “Angel Of Retribution”) erano state accolte con moderato calore e tutti avevano ormai pensato che il suo tempo fosse finito: a ciò si è aggiunta recentemente la dipartita forzata (in sede live, non su questo disco) di uno dei cinque cardinali, Glenn Tipton, e la situazione sembrava irrimediabilmente compromessa per i Judas Priest.
Ma i Priest non sono tra i fondatori del metal per caso, e alle soglie del 50esimo anno di attività pubblicano il lavoro più ispirato, travolgente e migliore dai tempi del capolavoro musicale “Painkiller”. Una risposta a chi li considerava finiti, ma una bella risposta in faccia a tutti i problemi e al Parkinson che sta affliggendo lo storico chitarrista su citato: malattia che non gli ha impedito, tra grandi sacrifici e sofferenza, di comporre ogni singola nota dell’album. E che album.
La title-track apre le danze, e una ventata di riff taglienti ci riporta ai Judas dei tempi d’oro: l’ugola di Halford è più in forma che mai e il pezzo scorre che è una meraviglia. Nulla di innovativo, sia chiaro, ma ascoltare una band così affiatata e così in forma dopo 50 anni di onorata carriera è sempre un piacere. E lungo l’ascolto del disco, ci si imbatte in pochissimi filler e tanta buona musica. “Never The Heroes” e “Rising from Ruins“(appare quasi profetico come titolo) cavalcano l’atmosfera dell’epicità senza l’uso di orchestrazioni, rallentando i ritmi ma non la potenza sonora; brani come “Lightning Strike“, “No Surrender“, “Traitor’s Gate” pestano il piede sull’acceleratore, forti di una sezione ritmica perfetta nel sorreggere la coppia d’asce nel comporre riff sempre ficcanti, che solo in episodi isolati risultano meno efficaci del solito e più fiacchi. È il caso della coppia “Necromancer“/”Children of the Sun” e di “Lone Wolf“: non si tratta di canzoni brutte, ma sono prive del mordente e/o dell’epicità che caratterizza il resto dei brani e nel quadro generale di “Firepower” risultano note stonate. Come se già i Judas Priest non ci avessero sorpreso abbastanza, ci regalano l’ultima chicca con la semiballad conclusiva “Sea of Red“, che con il suo crescendo chiude degnamente la nuova enciclica del Prete.
Non ci sarà dato sapere nell’immediato futuro se i Judas Priest in futuro comporranno nuovi album, ma se per caso “Firepower” dovesse essere il canto del cigno, apporrebbe un sigillo di tutto rispetto alla lunghissima carriera della band: un album prodotto molto bene, e suonato ancora meglio. L’apporto compositivo di Tipton al lavoro fa capire fino a che punto un artista può spingersi per amore della musica: ciò devono averlo compreso pure i suoi compagni di viaggio, come se fossero stati in qualche modo influenzati positivamente dall’energia e dalla grinta del chitarrista. Non è un caso se proprio gli assoli di Glenn siano tra gli highlights della release, ed è anche il modo in cui lo vogliamo ricordare: combattendo il Parkinson facendo ciò che ha amato, che ama e che amerà fino alla fine, sostenuto dai suoi compagni e da tutti i fan sparsi per i quattro angoli del globo. Omaggiatelo e omaggiatevi comprando “Firepower”, un album non tra i più innovativi, ma con una carica musicale ed emotiva rara di questi tempi. Lode al Prete di Giuda!