Gli Immortal non hanno certamente bisogno di presentazioni: nella fredda Norvegia degli anni ’80 e ’90 quando nacque quella che oggi è nota come “Second Wave of Black Metal”, oltre ai classici Mayhem, Burzum e Darkthrone, anche loro hanno avuto un ruolo di spicco come rappresentanti del movimento.
Siamo nel 1992 quando la neonata Osmose Productions pubblica “Diabolical Fullmoon Mysticism”, disco che fa iniziare la carriera del gruppo, seguito poi da altre produzioni che si son sempre fatte apprezzare, raggiungendo l’apice con “Pure Holocaust” e “At the Heart of Winter”.
Passano gli anni e si arriva al 2015, quando il celebre Abbath (all’anagrafe Olve Eikemo) decide di lasciare la band, per dedicarsi al suo progetto solista, facendo così presagire alla fine degli Immortal, dopo una notevole carriera.
Demonaz e Horgh, però, non ci stanno, e dopo qualche mese annunciano il ritorno sulle scene, coadiuvati dall’inossidabile Peter Tägtgren in veste di bassista turnista; decisione che porta con sé molti dubbi e aspettative piuttosto alte sui futuri lavori, com’è normale che sia.
Quindi, “Northern Chaos Gods” si presenta come un disco dal peso notevole per la formazione norvegese, uno dei più importanti della loro carriera, che ormai si avvicina ai trent’anni di lunghezza.
Finita questa doverosa introduzione, passiamo all’album in sè. La partenza è delle migliori con la title-track, la quale si presenta come un pezzo aggressivo e diretto come loro classico, facendo così capire come nonostante il cambio di line-up lo stile proposto non sia per niente cambiato.
I Nostri però non si limitano soltanto a proporre un tipico disco Black Metal, ma mantengono anche il livello alto come son sempre riusciti a fare, e lo conferma “Gates to Blashyrkh“, che va ad aggiungere delle atmosfere occulte, principalmente grazie gli arpeggi di chitarra, e in certi frangenti propone anche ritmi più orecchiabili ma comunque violenti e immediati.
“Where Mountains Rise” si mostra come una canzone varia e accattivante, dove i riff si susseguono continuando costantemente a coinvolgere nella loro rabbia, alimentata dalla voce inferocita di Demonaz.
La conclusiva “Mighty Ravendark” riprende in considerazione l’oscurità già presente in precedenza, e proponendosi come il brano più lungo del complesso mostra il costante livello della formazione. Si notano anche diversi rimandi a composizioni passate, specialmente alla celebre “Blashyrkh (Mighty Ravendark)“, ma essi per fortuna non sono evidenti a tal punto dal giudicare la traccia come una brutta copia dell’altra.
Non era facile per gli Immortal tornare con un lavoro convincente, ma Demonaz e Horgh hanno dimostrato che l’identità del gruppo non risiedeva soltanto nel precedente leader, bensì hanno saputo comporre un disco notevole e completo, che non raggiungerà i livelli delle loro pietre miliari, ma che verrà sicuramente ricordato in modo positivo.