“I racconti della morte e del fuoco”: un concept album che attraverso la malignità dell’essere umano, il sottile confine tra bene e male che molto spesso sfuma in una terra di mezzo in cui la moralità diventa tutto e il contrario di tutto, e la morte è protagonista . Ma un concept album che parla anche di redenzione, di purificazione, di scoprire: e quale figura migliore se non quella del fuoco?
Gli Ignea tornano a 3 anni di distanza da “The Sign Of Faith”, una piccola gemma nell’universo symphonic/melodic che molto spesso partorisce opere stantie e col retrogusto di già vissuto. Il quintetto ucraino riusciva nell’intento che molti disdegnano: quanti gruppi abbiamo visto presentare il nuovo album, o considerarsi portatori di novità, e suonare i soliti riff, le solite partiture, riproporre le solite atmosfere? Bene, gli Ignea non portano nulla di nuovo (senz’altro le atmosfere orientali non sono così comuni nel metal odierno, nonostante siano state battezzate da gruppi quali Myrath), ma hanno un loro sound, riconoscibilissimo, vario e non stantio. E in un mercato saturo come quello di oggi, saper portar qualcosa di proprio e di “originale” è sempre ben accetto.
“The Realms of Fire and Death” è un concept album, e nella migliore tradizione musica e testi vanno di pari passo: impossibile scinderli in due entità a sé stanti, perchè la musica è il veicolo che ricrea l’atmosfera della storia. Il disco si divide in tre macro sezioni, ognuna delle quali racconta una storia o ha un tema. Questa danza a due è probabilmente il punto di forza del disco, e stiamo per scoprirlo.
C’era una volta una regina che governava il suo florido regno: un giorno, uno stregone le annuncia che sarà uccisa da un gemello/a. In preda all’ansia e al panico, ordina di uccidere tutti i gemelli del regno, tra cui la sorella. Molto bello il contrasto tra il pulito della prima strofa, in cui la regina prende coscienza della profezia, e la brutalità della seconda strofa, in cui il growl enfatizza il cruento ordine. Il suo boia uccide in continuazione, l’acqua del regno si colora di rosso, la regina diventa sempre più assetata di sangue: un Demone fuoriesce dalle acque color sangue e stringe un patto con la regina, le distorsioni aumentano di intensità, la pazzia ha raggiunto il limite. Il growl di Helle Bogdanova, la frontman, urla ripetutamente “Queen Dies“: è vero, la VECCHIA regina è morta, perchè ora ve ne è una nuova, sadica e fuori di testa.
“Queen Dies” si lega a “Чорне Полум’я (Chorne Polumia)“: il regno felice di un tempo ha lasciato il posto a una landa infernale, in cui il patto col sangue stretto dalla Regina e dal Demone ha portato solo distruzione. Mi piace definirla una canzone ottovolante: alterna sezioni più serrate, dove le chitarre e la batteria aumentano i bpm, ad altre più ariose e melodiche, quasi a dare l’idea di come, nel suo inferno, tutto sia apparentemente, terrificantemente tranquillo. Helle si è ormai completamente incarnata nei panni della Regina, e l’alternanza pulito/growl esprime alla perfezione la pazzia della sovrana.
A metà canzone, un’azzeccata sezione djent rompe in due la canzone e l’equilibrio della storia: delle Fiamme Nere si sono propagate dal castello e ora stanno devastando ancor di più il regno. Alla vista del suo regno distrutto, la Regina si desta e capisce una cosa: il demone deve uscire dalla sua stessa.
“Out of My Head” è un piccolo capolavoro condensato in 4 minuti: Helle ci racconta i pensieri della regina, di come abbia capito l’errore commesso ma anche di come sia sia determinata a uccidere il Demone. Le sezioni in growl sono veramente ben fatte, merito anche delle chitarre molto taglienti, ma è l’ora dello scontro finale. Ad ogni colpo subito, il Demone si indebolisce, ma cosi pure la Regina: rimane solo una cosa da fare, e Lei lo sa. La Regina si pugnala, portando con sè il Demone: ora la regina è veramente morta, ma il regno è salvo.
La seconda parte si apre con una canzone che porta via con sé la distruzione della prima parte: “Í Tokuni (Eivør Cover)” ci trasporta in un mondo mistico, in cui le atmosfere sono sognanti, e nulla è più certo, realtà e sogno si mescolano.
Un’anima femminile, nella nebbia, vaga nella speranza di trovare il conforto del proprio amato: Helle sussurra le parole, più sono leggere, più l’aria può portarle lontano, magari tra le braccia tanto bramate. L’atmosfera è sospesa, strumenti orientali e tribali fanno la loro comparsa, insieme a voci che fanno capolino dalla nebbia: è riduttivo dire come la voce di Helle, rigorosamente in pulito, guidi la canzone con dolcezza e sentimento. I samples elettronici svolgono un ruolo fondamentale nel ricreare quell’atmosfera già decantata, senza risultare invasivi. Una canzone fragile, sentimentale, atmosferica, resa ancora più evocativa dal cantato faroese.
“Too Late to Be Born” cancella l’atmosfera eterea di “Í Tokuni”, ma è sempre un’anima la protagonista. É l’anima di un uomo dilaniato dalla frustrazione, dalla rabbia, dal dolore, che non sa più cosa sia reale e cosa no: gli Ignea ci costruiscono intorno questo turbinio di emozioni, e ciò che ne viene fuori è la canzone più violenta e pesante scritta dalla band. Un’intro elettronica sfocia improvvisamente in blast beat furiosi, Helle e il suo growl si fanno sempre più graffianti mentre racconta la storia di quest’uomo: un uomo in bilico tra realtà e fantasia, che per tutta la vita ha cercato la sua strada senza trovarla, che sente ogni notte la voce della donna che 3 anni prima ha perso per sempre. Non c’è un attimo di tregua, le chitarre e i loro riff abrasivi disegnano uno scenario senza speranza, come quello del protagonista, che si suicida nel fuoco, liberandosi da tutti i suoi tormenti.
Dopo la tempesta, la quiete: “What For” acquieta i toni, con una ballata totalmente acustica dal vago sapore spagnolo. Dopo una canzone totalmente in growl, Helle spolvera il suo pulito mentre decanta i pensieri e le domande della sorella dell’uomo suicida, che si continua a chiedere il motivo di questa sua ardua scelta. Con questo brano si chiude la seconda parte del concept: ora siamo alla terza, l’ultima, e ci stiamo avvicinando alla fine.
Le ultime 3 canzoni sono un sunto di tutte le atmosfere fin qui incontrate lungo la storia e lungo tutto l’album. “Gods of Fire” ci porta in tempi remoti, a quando il fuoco era sinonimo di distruzione, ma anche di sapere, quando era custodito dagli Dei. Essi lo distribuirono agli uomini, ma capirono presto l’errore che ebbero fatto. Se “Too Late To Be Born” aveva una matrice quasi death metal, con il suo blast beat e i suoi riff abrasivi, “Gods of Fire” si muove tra territori epic, ritornello melodico nella migliore tradizione Ignea, inserti elettronici e una parte finale sorprendentemente thrash metal, arricchita pure da un assolo. Forse la canzone più ottovolante dell’album, per sfaccettature e sfumature.
Nella penultima traccia, “Jinnslammer”, il fuoco non lo troviamo sulla Terra o tra gli uomini, bensì negli occhi di una ragazza. Una ragazza stanca dell’oppressione, e che vuole ribaltare la situazione. Il quintetto ucraino sfodera tutte le sue cartucce migliori in quest’ultima parte di album, creando un loop infinito di cambi d’atmosfere e break strumentali che si alternano in maniera naturale, senza spezzare la canzone e senza forzare la mano. Molto bella la parte centrale, quando tastiera e chitarra si prendono la scena a vicenda.
Tutto è ormai perduto. Gli uomini hanno imparato a maneggiare il fuoco e la società si è evoluta tecnologicamente, ma la loro innocenza e la loro umanità è andata via via perdendosi, venendo sostituita dalla sete di gloria, di potere, e dalla guerra. Gli Dei ormai sono disillusi, capendo che non avrebbero potuto più fare nulla su quel pianeta ingrato, se ne andarono, verso altri pianeti dove altre creature avrebbero apprezzato di più la loro benevolenza…”Disenchantment” ci regala un finale epico, quasi da soundtrack: l’atmosfera nelle strofe è sospesa, salvo ritornare prepotentemente sulla Terra nel ritornello in cui Helle urla tutta la rabbia degli Dei verso quelle creature così ingrate. L’ultimo minuto e 40 è da pelle d’oca: blast beat, una Helle in stato di grazia, e una sezione strumentale epica conclude questo viaggio attraverso il fuoco, la morte e i loro molteplici significati.
9 canzoni, nessun filler, qualità sempre eccelsa, in certi casi si sfiorano vette altissime, una frontwoman che sa quando usare il growl e quando il pulito senza forzare la mano: cosa dire di questo TROFAD? Gli unici “difetti”, se così possiamo chiamarli, sono il durare forse troppo poco, dato che si arriva alla fine che se ne vuole ancora, e, strano a dirsi, il livello troppo alto delle canzoni.
“Ma il recensore è scemo?!” starete pensando: ve lo spiego subito. Tutte le canzoni, nelle loro atmosfere e nelle loro storie, sono fatte benissimo, sono emozionanti e trascinanti, ma manca quella canzone che risalta sulle altre, che ti fa stare a bocca aperta. E sia chiaro: molte band pagherebbero per avere un “difetto” (che difetto non è) del genere, ma questo fa capire che da questi ragazzi possiamo aspettarci ancora di più.
Si dice che il terzo album sia la prova del nove: allora meglio che segnate questo quintetto ucraino sul radar, perché alla prossima uscita questi ragazzi potrebbero fare veramente il botto.
“When artificial light is off
When you are burned by the watts you loved
When you return to your origins, we’ll be far away.”
IGNEA – DISENCHANTMENT