“Chi non muore si rivede” è un modo di dire che potrebbe essere applicato a molti nomi fuori dalla scena musicale e tornati con lavori più o meno validi, gli esempi a riguardo si sprecano. In realtà, gli svedesi Graveyard, alfieri dell’Hard Rock vecchio stile, morti lo sono stati per un po’, quindi il detto andrebbe preso con le pinze, ma se i ritorni di molte band lasciano spesso a desiderare, Joakim Nilsson e soci sono tornati in carreggiata roboanti come non li sentivamo da tempo. Tre gli anni passati dall’ultimo lavoro in studio, un periodo a dir poco intenso e problematico che ha visto prima il ritorno di Truls Mörck, in veste di bassista, su “Innocence & Decadence” e poi il deragliamento della band l’anno successivo: in formazione leggermente rimaneggiata, con l’ingresso di Oskar Bergenheim dietro le pelli, il quartetto di Göteborg torna in grande stile con questo “Peace“, un lavoro d’impatto e ben coeso che si discosta in parte dalla direzione del precedente lavoro.
Le intenzioni sono subito ben chiare fin dall’inizio, con un’opener dal titolo che è tutto un programma a dimostrazione di come la band abbia ancora tutte le carte in regola per imporsi con un disco che a conti fatti presenta le solite due anime, ben distinte ma complementari, degli svedesi: da una parte Nilsson con la sua inconfondibile voce ruggente nei pezzi più grezzi e diretti come ai vecchi tempi, dall’altra una versione più sommessa e malinconica, in un paio di casi interpretata egregiamente da Mörck, dal timbro più caldo e avvolgente. È così che nei quaranta e rotti minuti di “Peace” ci ritroviamo sballottati da pezzi aggressivi come “It Ain’t Over Yet“, il singolo “Please Don’t” e la quasi title track “A Sign Of Peace“, ad altri molto più morbidi e altrettanto validi, come la bellissima “See The Day” e la folkeggiante “Bird Of Paradise“, entrambe con un Mörck in grande spolvero a dare il suo contributo vocale in due tra le tracce migliori del lotto. La produzione è quella tipica dei Nostri, con dei suoni tirati a lucido ma non troppo in modo da conservare quella ruvidezza che era andata un po’ persa tre anni fa e che è parte inamovibile del DNA della band.
Tra gli altri momenti degni di nota si possono ricordare “Walk On“, un pezzo incalzante e a tratti quasi sabbathiano nel suo incedere, e la conclusiva “Low (I Wouldn’t Mind)“, brano movimentato che ricorda un po’ i Creedence Clearwater Revival. Purtroppo, però, pur non trovandoci di fronte a un disco scialbo (anzi!) i picchi compositivi di un “Hisingen Blues”, per intenderci, sono lontanucci e la band finisce inevitabilmente per fare qualche passaggio leggermente a vuoto: un esempio potrebbe essere l’altro singolo “The Fox“, che riesce nell’impresa di risultare un po’ tedioso nonostante i soli due minuti e mezzo di durata. Leggeri cali di tensione del tutto fisiologici, se teniamo conto che il genere è qualcosa di autoreferenziale per definizione e che l’effetto novità è ormai venuto meno, essendo gli svedesi in circolazione da più di dieci anni.
Al netto di questi piccoli nei, tuttavia, resta il fatto che i Graveyard del 2018 siano riusciti sicuramente a riscattarsi dal punto di vista personale dopo tante difficoltà e, dopo un disco non proprio riuscitissimo, anche artistico, con un ritorno sui propri passi che dà tutta la sensazione di potersi tradurre in un capitolo di successo. Bentornati!