Dopo due demo e un EP i finlandesi Grave Violator pubblicano il loro primo album, “Back to the Cult” per Reaper Metal Productions. Il titolo non è scelta casuale, dato che quello che si va ad ascoltare è il grande ritorno del metal old school, che si fece conoscere attraverso nomi come Sarcofago e Nifelheim. In questo lavoro si può ritrovare quella via di mezzo fra thrash e black metal che ha fatto innamorare generazioni di appassionati in passato e continuerà a farlo sicuramente anche nel futuro. I brani non mancano di alcune citazioni più o meno evidenti che andremo ad analizzare in seguito, con delle pecche che sicuramente salteranno all’orecchio di chi sì apprezza gli omaggi al passato, ma vuole anche dell’altro. Composto di nove brani per una media di circa tre minuti ciascuno, si può subito sottolineare il growl splendido del cantante e una qualità di produzione sicuramente scarna ma che dà quel tocco old school che rendono questo lavoro un vero omaggio al Culto originario.
Il primo brano è “Baptized in Filthy Semen“, già titolo del secondo demo pubblicato dalla band. Aggressiva già dalle prime note, suona molto thrash metal (i primi che vengono alla mente sono i Toxic Holocaust) e la batteria si esibisce in alcuni brevi intermezzi. Il ritmo incalzante permette sicuramente dell’headbanging sfrenato e si può subito sentire quell’atmosfera classica tipica delle band sopracitate. Il riff che segue una brevissima interruzione mi fa venire alla mente quello portante di “Weidmanns Heil” dei Rammstein, citazione molto interessante dato che esula completamente dai generi di riferimento. Dopo un breve assolo, le chitarre si sfidano insieme mentre il basso, veramente ben udibile, fa loro da eco prima di sfociare in un altro assolo. Come inizio non è male.
“Knife Fighter” è nel suo complesso un enorme, pazzesco tributo agli Slayer, praticamente una rivisitazione in salsa nera di “Angel of Death“, a tratti può addirittura ricordare i primi Marduk. Assolone con note casuali a parte, si potrebbe anche salvare ma secondo me scade troppo nel prevedibile.
In “Ritual Humiliation” lo spirito di Chuck Schuldiner deve aver fatto una visitina ai Nostri specialmente nell’introduzione; esplode quindi in thrash che però rimane tinto fino all’ultimo di un death metal anch’esso old school che dopo la canzone precedente fa risalire l’attenzione. Punto focale del brano è un assolo veramente stupendo e lunghissimo, che si trascina fino alla conclusione. Veramente un brano ottimo e oserei dire il migliore dell’album.
“Forced Flesh” stanca. Nel senso che dopo la canzone precedente non c’è molto da dire oltre a quanto è già stato detto: l’old school c’è tutto, la rabbia e la velocità si presentano puntali all’appello, così come un assolo completamente casuale nel mezzo della canzone. Ma oltre a questo non c’è nient’altro da dire. L’instancabile “tupa-tupa” della batteria comincia a pesare, niente di nuovo viene posto sul piatto risultando quindi in nient’altro che un grande tributo.
Dopo l’illusione con un’introduzione melodica molto carina, anche “Deliverance” non aggiunge nulla al quadro. Assolutamente nulla. La formula è praticamente la stessa ascoltata finora. Per fortuna, in soli due minuti e quattro secondi “Accusations” fa tirare un meritatissimo respiro di sollievo, permettendo all’ascoltatore di liberarsi un attimo da tutta la furia ascoltata finora. È una splendida strumentale, acustica ma non troppo, dove il vero protagonista è il basso di accompagnamento ad un semplice assolo di chitarra elettrica e una acustica che fa da dolce sottofondo.
Dopo l’anonima title track è il turno di”Chamber of Demons“, la canzone più lunga dell’album. In mezzo ad assoli random e batteria ripetitiva ormai fino alla pazzia, si può segnalare un’interruzione a metà che lascia spazio ad un growl molto più aggressivo e rabbioso, permettendo un po’ di respiro. Verso la fine, varie voci discordanti tra loro fanno scendere l’ascoltatore nel più spaventoso degli inferni.
L’ultima e velocissima “Feed the Dead” conclude l’album con una sferzata di thrash tinto di nero, ma ormai le carte sono sempre quelle.
Il problema di questi album o band “tributo” ai bei vecchi tempi è proprio questo: tutto è stato già sentito, più e più volte per giunta, e alla fine rimane ben poco di interessante oltre a un paio di nomi importantissimi e altisonanti da citare come fonti. Sicuramente i grandi cultori dell’old school ameranno alla follia questo prodotto; gli altri invece si potranno divertire (come ho fatto io) a cercare tutte le somiglianze e le citazioni più o meno nascoste in ogni brano, o a permettersi di fantasticare come avrebbe suonato l’album se ci fosse stato un pizzico di proprio all’interno delle composizioni. Non si può dire che il lavoro dei Grave Violator non sia sufficiente, in quanto le note positive sono di tutto rispetto e di ottima qualità, ma c’è da chiedersi: quanto senso ha continuare ad omaggiare il passato quando c’è un futuro da costruire?